domenica 29 gennaio 2017

La spedizione del Monte Sassone.


La spedizione del Monte Sassone.

Ricordi lasciati da Sante Montanari detti “Cascio” di Lugo

Capo I Esordio

Gigì ad Masòn
Mi sarei rassegnato a tacere ancora, aspettando che un pietoso velo avesse sepolto per sempre nell'oblio il così detto “Moto di Castrocaro” ma poiché, dopo oltre un ventennio, si osa farne sui giornali delle delle pubblicazioni talvolta cervellotiche e quindi non esatte, mi trovo nella necessità d'intervenire.
E siccome io sono indicato (modestia a parte) come il principale fautore del sopradetto “Moto di Castrocaro” debbo mettere le cose a posto nell'intento di giustificare il mio operato, tanto dal lato del prestigio morale, come da quello più importante della sincerità.
Vengo dunque ad una esatta e dettagliata esposizione di cose e fatti, e prego il lettore ad essermi cortesemente benevolo di attenzione.
Dividerò la narrazione in diversi capitoli, incominciando con un po' di storia retrospettiva del nostro elemento rivoluzionario, perchè si sappia che chi dedicò forza, anima e onore ad una azione non scevra di pericoli, non fu vittima né di  un fanatismo insano, né di una esaltazione ingiustificata, ma per il portato di una convinzione profonda, che gli eventi man mano maturarono.


II- Lavoro preparatorio

I convegni segreti, le gite, le stampe non dovevano essere elementi ottimi per affrontare in questi 40
 ani e più di regno basato sul privilegio, gli eventi di una sommossa atta a dare alla popolazione italiana, giusta e degna soddisfazione, e tentare la instaurazione della sovranità popolare mediante una alzata di scudi, fosse pure a mano armata, opera questa vaticinata dai nostri grandi precursori..
Invece l'Alleanza Repubblicana Universale che ne era il perno principale, in quel momento, si limitava a spargere fra gli affigliati, i così detti bollettini segreti, ripetendo su per giù sempre le stesse cose e non si arrivava mai a nessuna conclusione, urtando così maledettamente colla logica e col buon senso.
Le cerimonie perciò si fecero vive, specialmente dopo il congresso repubblicano di Firenze del 1886, e da allora incominciò un altro lavoro più aperto e più spigliato, sebbene si svolgesse nelle stesse forme, sempre occulte e segrete.
Felice Albani e Lodovico Marini, che in quell'epoca tenevano testa al Comitato centrale del Partito Repubblicano in Italia, non lasciavano passare occasione, sia nei congressi Nazionali del Partito, in riunioni di una certa importanza, senza cercare che in un angolo di queste pubbliche manifestazioni, scaturisse la nota riguardante i preparativi per una insurrezione contro lo stato dominante: e furono anche indetti convegni appositi, dove si cimentavano costantemente tutti gli elementi nostri rivoluzionari allo scopo d'indurli ad azione decisiva.

III – Convegni Intimi

I convegni, come ho detto erano frequenti: e a Genova, a Firenze, a Bologna, a Forlì, a Ravenna e per ogni dove, ma il risultato era sempre lo stesso: si faceva un po' di statistica sul materiale disponibile, qualche buon proponimento  sul convegno successivo, e poi tutto si dileguava placidamente senza addivenire, ripeto, a nessuna pratica conclusione.
Di questo procedimento, mi sentivo mortificato. Pensavo: o siamo veramente rivoluzionari, ed allora  bisognerà pure andare innanzi o vogliamo parere di esserlo senza averne la virtù del sacrificio, ed allora noi recitiamo una indegna commedia.
Comunque, non potendo tollerare più oltre mi decisi farla finita con questa specie di altalena, proponendomi di svolgere un'azione, che secondo il mio parere, doveva ridonare il dovuto prestigio
alla parte nostra.
E oltre alle riunioni segrete- nelle ultime delle quali a Bologna, partecipò anche l'illustre Aurelio Saffi, proponendo a tale riguardo un apposito fondo nazionale- non mancarono di conseguenza gli emissari i quali incitavano tutti nel miglior modo possibile ad un'azione comune a mano armata.
Tralascio di accennare le cose minori: solo dirò che un giorno- molto prima di quanto ho esposto- mi vidi comparire nel mio negozio, gli amici Ing. Taroni e A. Del Vecchio, ingiungendomi che bisognava assolutamente provvedere di armi quanti volonterosi si votavano alla nostra causa.
Trascuro anche di parlare delle coneguenti riunioni nel nostro circondario cui partecipavano – molto assiduamente- i nostri amici di Bagnacavallo, Fusignano ed altri

IV Gli emissari
Primo in questo periodo di tempo fu quell'anima nobile di Lodovico Marini di S. Arcangelo. Comparve fra noi col mandato preciso di provvedere ad un lavoro serio di preparazione. Egli ci fece capire che dovevamo fare in modo di privarci di tutto, fuorchè dell'arma necessaria: la carabina!
E ricordo che tanto era disinteressato, che alla sera, volendo offrirgli un modestissimo simposio, rispose: ma per carità non fate complimenti, tenete tutto per provvedere il necessario alla nostra causa.
Questo succedeva come ho detto fra il 1886 e l'87. La corrispondenza quindi col Marini e con altri si fece più attiva, accentuando i modi della cospirazione.

V Circostanze politiche
E' necessario che io accenni anche a circostanze di carattere politico le quali, secondo il mio modo di vedere, dovrebbero valere a titolo di giustificazione. E per prima parlerò del voluto viaggio del Re in Romagna (1888)

VI Viaggio del Re in Romagna
Francesco Crispi, il quale come ben disse Bovio -trovava più facile vivere senz'aria, che senza orizzonte politico- conscio della sua storica frase, la monarchia ci unisce e la repubblica ci divide, si diede alla conquista della Romagna stabilendo il passaggio del Re per le nostre contrade. La sfida lanciata dal dittatore alla così detta Romagna ribelle, non poteva certo trovarci indifferenti. E allora si fece un lavoro, diciamolo pure, in senso rivoluzionario.
L'emancipazione che si pubblicava a Roma, da settimanale fu convertita per la circostanza in giornale quotidiano. Queste circostanze erano elementi ottimi per dimostrare tutto il nostro disprezzo verso il regime attuale di governo e quindi a me non sembrò vero di gettarmi, sia pure moderatamente, contro la corrente calmieratrice e reazionaria.
I partiti avanzati in Romagna, malgrado le promesso, poco arditamente si scagliavano contro tale tentativo ingiurioso. Feci, ripeto, quanto potei per far capire che la Ropmagna non si sarebbe piegata mai al giogo monarchico. Ma sembrava quasi vi fosse un'intesa per un assoluto silenzio.
Ruppi il ghiaccio, e tenni un'attiva corrispondenza col quotidiano “l'emancipazione” di Roma, osteggiando in tutti i modi il decantato viaggio del Re in Romagna. In questa occasione ebbi il compagno fedele l'Avvocato Tullio Giovanni Corradini di Ravenna e con esso furono frequenti i colloqui a tale riguardo.
Avevamo già in diverse adunanze, approvato un manifesto proclama di protesta e di lavoro, quando di soppiatto gli emissari del forlivese, vennero a frapporsi togliendoci la possibilità di procedere per un'azione decisiva. Cio' nonostante, anche così dimezzati, si vide che le nostre insistenze lasciarono capire che nelle alte sfere vi era qualche preoccupazione al punto che, come un offa, venne elargito l'allargamento del suffragio elettorale. E per aprire più facilmente l'adito al progettato viaggio del Re in Romagna, non dovettero muovere tutte le pratiche, anche presso le persone più influenti del partito repubblicano, alcune delle quali per altre cortesia, fecero quasi da battistrada.

VII La grande Alba
Venne il 1889: il il centenario della proclamazione dei diritti dell'uomo, ed i giornali della democrazia erano pieni di panegirici . Tutto ciò alimentava le mie speranze ed entusiasmava maggiormente la mia fantasia.
VIII Risveglio delle masse popolari
Nella lista pubblica in quell'anno si manifestava un certo risveglio popolare e tutte le amministrazioni comunali delle principali città d'Italia. Specialmente di Romagna,passarono dalle mani dei conservatori a quelle della democrazia. Un'arma salutare attraversava, secondo il mio modo di vedere, le nostre contrade e bisognava approfittarne per compiere un'azione decisiva onde non renderci maggiormente ridicoli in raffronto ai nostri propositi rivoluzionari. E d'altra parte, chiunque guardasse attentamente allo svolgersi della vita politica italiana in quei momenti, capiva che le agitazioni legali, erano completamente insufficienti e quindi la necessità impellente di dar mano ad argomenti più persuasivi.
E Come no?
Non avevano avuto forse luogo in Italia i cento e cento comizi per il suffragio elettorale? Poi non avemmo su Roma a questo proposito il comizio dei comizi?
Gli uomini più eminenti della democrazia, parteciparono a quella grande manifestazione, ed il governo della monarchia restava costantemente impassibile. Il popolo d'Italia si agitava per l'abolizione delle guarentigie papali ed il governo della monarchia, rispondeva picche.
E tutta l'immensa agitazione svoltasi mediante una infinità di comizi per impedire la disattesa impresa eritrea a cosa valse? Depretis incarò la dose, e rispose regalandoci il carrozzone delle ferrovie, dove banchieri speculatori traevano il loro benestare. Eppure, quando una popolazione si agita per una cosa giusta, dovrebbe trovare eco nei reggitori della cosa pubblica. Tuttociò indispettiva la parte nostra ed in particolar modo incuorava a tener salda la compagine della cospirazione

IX Altre circostanze favorevoli
Sempre più decisi sulla progettata impresa, pareva a me che tolti i partiti avanzati (specialmente il partito repubblicano della Romagna) accarezzassero l'idea di una sommossa a mano armata. E ciò mi parve desumerlo dal fatto, che sul fiorire del 1888 e lungo il 1889 mi feci, con esito fortunato,iniziatore di diversi congressi, con l'ausilio dell'avvocato Pierino Turchi e di altri amici della Consociazione Repubblicana Romagnola, nei quali congressi teneva un linguaggio da cui traspariva anche all'ascoltatore più miope ciò che veramente mi proponeva. Difatti tale era la stima di cui era fatto segno in quell'epoca dai miei correligionari che fui balzato, in poco tempo, da semplice membro del comitato circondariale, alla direzione centrale della stessa consociazione repubblicana romagnola. Io non ho mai ambito a cariche di sorta, ma in quel momento accettai di buon grado, perchè mi dava adito a dar corso alla progettata azione con maggiore profitto.  Ed in quei momenti mi sembrava di avere capito che bisognava affrettare il passo, perchè elementi ed idee nuove venivano a scolvolgere o quanto meno, a ritardare la nostra risoluzione. Orizzonti ostili fino dal congresso di Firenze del 1886 si erano manifestate diverse correnti. Io ricordo- come lo ricorderanno altri- che in quel congresso certo De Nobili fece un discorso in senso collettivista, trattando della nazionalizzazione della terra. E mentre l'assemblea appaludiva, Aurelio Saffi, che presiedeva la seduta si alzò, e indignatissimo rivolse parole di amara vergogna all'oratore, talchè tutti rimasero impressionati. Il timore era più che giustificato, poiché come tutti sanno, la discussione sul collettivismo e sulla lotta di classe, tenne poi impegnato il nostro partito in molti altri congressi  e sedute successive senza nessun costrutto.
X I preparativi epistolari
I preparativi epistolari, contrariamente a quanto si può pensare, furono elaboratissimi. La corrispondenza passava rapida in molte delle principali città d'Italia. A Roma facevano capo, come dissi, a Lodovico Marini e a Felice Albani, che potevano comunicare pel tramite di Ettore Feneri- ora gran maestro della Massoneria. A Firenze la corrispondenza era ancora più attiva. Comunicavamo costantemente con Andrea Giannelli- incaricato dell'Alleanza Repubblicana Universale- per tramite di certo Torquato Giovannini negoziante insospetto di cose politiche. Altre città d'Italia, ripeto, erano della partita. A Genova avevamo pure il nostro complotto. Perfino il generale Stefano Canzio non seppe sconsigliarci, cui mandai apposito incaricato, il vecchi Garibaldino Innocenzo Prina.
E a far ciò fui indotto da una frase che raccolsi a volo in crocchio, presente Aurelio Saffi, in un intervallo dello stesso congresso del 1886, ove Canzio uscì fuori con queste precise espressioni: E' tempo di finirla con le chiacchiere, ci vogliono argomenti più persuasivi!
A Milano, oltre ad un'intesa con Bartolo Federici e con altri, tenevo corrispondenza coll'Ing. Paolo Taroni pel tramite di una signora della quale ora mi sfugge il nome.
Bologna pure non era assente. Con Emiliano Carloni avevamo preso qualche disposizione, sebbene questi si mostrasse un po' diffidente. Qui poi nella Bassa Romagna, eravamo in comunicazione col più piccolo centro. A Rimini avevamo comunicazioni col Bendandi e col Renzetti. A Cesena con Egisto Valzania e con altri volontari coadiuvati dal Dott. Zappi. A Ravenna con l'Emiliani, castellani, Monti ecc. Ad Imola con Sassi e Fantini, i quali non erano passati al collettivismo.
Dappertutto poi ed anche nel più piccolo paese e nelle borgate si rispondeva con entusiasmo, dando il maggior contingente di energia e di desiderio per una rivoluzione pratica.
Perchè non dovrei ricoprdare ancora a titolo di onore il Zanelli di Banacavallo, il Sorboli e il Bezzi per Traversara, l'Emaldi per Fusignano, il Bertini per Massa Lombarda, quelli di S. Agata sul Santerno, Lavezzola, Cotignola e tantissimi altri?

XI La Decisione
Ma anche questa intese verbali sembrava a me non bastassero, e ad ogni costo bisognava addivenire ad una risoluzione concreta. Quindi, coronato di tale fiducia, stabilii una data, oltre alla quale non si poteva dilazionare, a meno che non si volesse- secondo il mio modo di vedere- mandare il tutto alle calende greche. Ne venne di conseguenza il procedimento per le pratiche necessarie onde raccogliere, secondo le fatte promesse, gli elementi per una alzata di scudi a mano armata.

XII Il materiale pel procedimento
Se la parte epistolare fu, come ho detto, molto elaboratanon meno diligente fu la ricerca dei mezzi materiali per riuscire nell'intento.
E nelle continue mie ultime gite, fra gli altri ebbi compagno Babini Albrto di Russi. Le nostre visite nei diversi centri, erano sempre oltremodo confortanti. Basti dire- tanto per dirne una- che solo a Faenza il Masoni ci assicurò di mettere a nostra disposizione le 300 (dico trecento) carabine del tiro a signo nazionale di quella città, avendo egli solo- il Masoni- in consegna detto materiale.

XIII Procedimento
Esposte così le cose come avvennero con tutta  la sincerità del ricordo alla distanza di oltre un ventennio , passerò a narrare alcuni aneddoti che si svolsero prima della partenza.
Un fatto speciale di cui molto si occupò la stampa in quel momento fu il furto di 40 fucili. Anzi, dirò più precisamente , dei 43 fucili.
In quell'epoca io era assessore comunale e delegato per l'igiene del paese. Un giorno visitando il magazzino comunale posto nella vecchia chiesa di S. Domenico, vidi quegli arnesi in diversi fasci tenuti con  poco riguardo, e alcuni anzi erano coperti di ruggine e avevano un aspetto tutt'altro che attraente. Li osservai ad uno ad uno, e quale profano,sembrommi che tuttavia fossero in qualche modo utilizzabili. E siccome si avvicinava il momento in cui una sortita in un modo o in un altro avrebbe dovuto dar luogo, così mi feci premura di chiamare  un mio confidente, relativamente pratico e reduce dal militare servizio, per le dovute riparazioni.Questo artista non era altro che il mio amico Filippi, al quale diedi incarico di provvedere il necessario (capsule, polvere)perchè i vecchi arnesi potessero regolarmente funzionare. Tutto questo, beninteso, io facevo ad insaputa del Sindaco e dei miei colleghi di Giunta. Ma le mie precauzioni non bastarono, poiché alla vigilia della partenza- perlustrando- mi accorsi con sorpresa che i fucili, se n'erano involati.
Era stato il Sindaco, che a mia insaputa, li aveva fatti trasportare in altro locale. Assicuratomi di ciò, d'accordo con altro collega del Consiglio Comunale, andai di persona,minacciandomi di dimettermi, provocando così una inevitabile crisi nello stesso Consiglio Comunale.Figuratevi! Ercolino Bedeschi, il Sindaco d'allora, teneva tanto alla stretta compagine della sua amministrazione comunale, che non si fece ripetere l'invito due volte e, chiamato immediatamente l'agente comunale,diede ordine che mi fosse svelato il posto dove erano stati nascosti i fucili.E potei apprendere che dal magazzino di S. Domenico, erano stati trasportati nell'ultimo piano del collegio Trisi. L'agente comunale Gaspare Lanzoni, dopo avermi indicato il posto preciso, mi avvertì che prima di arrivare fin là, avrei dovuto forzare  non meno di tre porte chiuse a chiave.

XIV Il ratto dei Fucili
Eravamo favoriti da una notte abbastanza buia. Il complotto era pronto, ma se non si riusciva ad aprire la porte, non sarebbe stato possibile impadronirsi dei fucili. Pratico del mestiere-non del ladro, ma del fabbro- ferraio, mi procurai dei soliti grimaldelli che avevano servito ad aprire tante altre incertissime porte, e giunto in piazza Trisi mi accorsi che mancavano i fanali per potere internarsi nel Collegio Trisi. Mandai subito l'accenditore di fanali Gavelli, che era della comitiva, perchè colla sua scaletta, ci provvedesse almeno un paio di lampade a petrolio, che allora servivano per la illuminazione pubblica. Questo fu fatto, in men che non si dica. E contemporaneamente io avevo già incominciato il mio lavoro, ed il chiavistello della prima porta aveva già ceduto. Così con i lumi accesi, tenendo ben coperte le parti che guardavano la strada, ci internammo, e dopo che io ebbi aperte le altre due porte coi grimaldelli, ci trovammo d'innanzi alla desiderata preda.Eravamo provvisti di pezzi di tela e di molta carta vecchia, e si cominciò a fare dei fascetti di non più di 6 fucili ciascuno. Tutto l'imballaggio era pronto, ma l'ora era tarda- ore 2 dopo mezzanotte. Alcuni opinavano di tornare la sera susseguente, ma la maggioranza volle fare il trasporto immediato. Le difficoltà sorgevano intanto per il modo di poterli trasportare: per la porta davanti era impossibile. Bisognava quindi scavalcare il muro di cinta. E si stabilì un servizio sentinelle. Dunque, dicevano alcuni, al primo apparire della forza pubblica darete un fischio. Ma che fischio-fece osservare il Garavina, ciò è del ladro ed è troppo di sospetto: soffiatevi il naso. Così fu stabilito. Fortunatamente il transito avvenne senza nessun incidente ed i 43 fucili andarono nel posto destinato. Veramente il posto doveva essere un ripostiglio del locale circolo “Guglielmo Oberdan”, ma poi si ritenne che questo non fosse troppo al sicuro, e per ciò si lasciò il deposito in locale delle case operaie, presso Babbi Salvatore. La sosta non doveva oltrepassare un paio di giorni, cioè dal 20 al 22 giugno, giorno destinato per la partenza, che poi non ebbe luogo, per altre circostanze che narrerò in seguito. Passato qualche giorno, i detentori di dette armi, cui la cosa diveniva pericolosa, mi fecero sapere che ad ogni modo volevano sbarazzarsene.
Allora io fui obbligato ad organizzare un servizio notturno per il ritiro in altro posto.La mia officina disponeva di un vasto locale, e sebbene io fossi troppo indicato, approvai di fare il trasporto in casa mia. E la cosa riuscì benissimo. La mia officina, da Via Fermini aveva un entrata, sul di dietro, dalla parte del Corso Garibaldi, quasi sconosciuta, e da quella , di nottetempo , feci entrare tutto il bagaglio, nascondendolo in una legnaia.Le armi furono lasciate nascoste, ripeto,in casa mia nell'attesa di poterle utilizzare, poiché la progettata prima partenza del 22 Giugno, venne impedita nel modo che racconterò.

XV Tentati impedimenti
Tutto, come dico, era preparato per la partenza accennata, quando proprio alla vigilia ricevetti una lettera dalla Associazione Repubblicana Romagnola, colla quale mi s'invitava ad una adunanza a Forlì, in riguardo appunto a tale impresa. Mi ci recai immediatamente trepidante, poiché due idee mi balenavano alla mente: quella di essere aiutato, e l'altra che ammettevo più probabile di essere sconsigliato. Non mi ero ingannato. Trovai in questo convegno quasi tutti i maggiorenti del Partito repubblicano della Provincia, i quali unanimi, mi fecero preghiera di soprassedere per il momento all'impresa. Aggiungevano però che dopo una quindicina di giorni, la cosa più matura, sarebbe stata più possibile ed essi stessi vi avrebbero partecipato.

XVI Il Rinvio
Nel ritorno a Forlì, dovetti passare dai vari paesi consenzienti al complotto e dare contrordini atti a fare capire il forzato rinvio.
La prima fase finì li aspettando che quella specie di diverbio  desse conto del promesso aiuto. Ma purtroppo il mio presentimento non tardò molto ad avverarsi: lettere di amici intimi e comunicazioni verbali, mi annunziavano quanto fosse deleterio il lavoro che compieva la cricca forlivese. E per quanti sforzi io facessi, unitamente ad altri, per tenere in piedi la partita, pure giorno per giorno mi accorgevo che il terreno mi veniva meno. E già ormai mi davo per vinto, visto che tutti gli sforzi riuscivano inutili.

XVII Nuova Speranza
Quando un bel giorno mi giunse un telegramma d'urgenza col quale ero invitato immediatamente a Castebolognese, dove un personaggio mi aspettava per urgentissime comunicazioni.
Fra una corsa e l'altra del treno (fra le ore 15 e le 17) io non frapposi tempo: lasciai il mio lavoro manuale e recommi all'appuntamento. Era Felice Albani, che per incarico della Società segreta- Alleanza Repubblicana Universale- aveva compiuto una dei soliti giri segreti esploratori . E di comune accordo si stabilì di continuare nel lavoro incominciato, poiché nel suo viaggio, l'Albani aveva potuto assicurarsi, che almeno altre quattro Province avrebbero seguito il moto. Ma come, osservai, se quelli che ci dovrebbero essere d'aiuto ci scalzano continuamente? Non temere rispose l'Albani, abbiamo altri validi elementi. Noi continueremo le nostre pratiche, e tu potrai associarti con Luigi Mengozzi di Castrocaro, ottimo elemento. E fu appunto subito dopo, cioè nel luglio di quell'anno, che ebbi lassù col Mengozzi un intimo colloquio, stabilendo collo strano Mengozzi, una azione decisiva, qualsiasi fossero gli elementi che ci avevano seguiti. Così fu ripreso con lena il lavoro e le riunioni segrete, tornarono molto più frequenti.
In questa seconda fase prevaleva l'elemento dei lavoratori del braccio, ed un valido appoggio l'ebbi da un buonissimo amico di Forlì- poiché altri ci avevano precedentemente abbandonati- Albino Reich, meccanico, che mi fu sempre di guida nelle frequenti escursioni lassù pei monti di Castrocaro, che mi erano allora sconosciuti perfettamente.

XVII Preparativi per la partenza
Si avvicinava il giorno della partenza, e questo doveva essere improrogabile. Intanto il buon Mengozzi aveva preparato una trentina di tascapani, un sacco di pane ed armi perfezionate. Dal canto mio ero pronto.: 3 Wetterbeg, un paio di dozzine di fucili, e due sporte contenenti materie esplodenti, con un po' di provviste di cibi  per la nottata.

XIX La partenza
I partenti da Lugo, Bagnacavallo erano circa una trentina. Io avevo fatto preparare due grandi giardiniere che feci fermare ad una certa distanza dal paese, in luogo appositamente destinato.
All'ora precisa, tutti i congiurati furono pronti al loro posto e circa alle ore 9 della sera del 16 agosto 1890 partimmo alla volta dei monti.
La prima tappa avvenne a S. Potito. Colà, essendo nella aperta campagna, si fece una rassegna del materiale disponibile, poi continuammo per Bagnacavallo, dove ci attendevano altri due bagnacavallesi che aumentarono la nostra comitiva, e così fu a Cotignola e a Granarolo, seguendo sempre la via del Naviglio. Poi rasentammo Faenza. Ma qui la consegna era di aspettare gli eventi.
Continuammo per Forlì, dove ci seguirono alcuni amici, e finalmente ci inoltrammo nella via tortuosa che conduce sino alla crocina denominata “La Rovere” indi fummo presto a Terra del Sole e poscia a Castrocaro, ove ci attendevano atri, unitamente al buon Mengozzi. Erano le 3 dopo mezzanotte: molti si erano addormentati nelle volture. E intanto con molta precauzione e per una via deserta, fummo accompagnati in un posto così detto della Fornace. Quelli del posto, ci avevanopazientemente aspettati, e già tutto era pronto per essere forniti delle armi e del necessario per far fronte a qualsiasi evento. Ma ad un tratto una gran parte dei congiurati furono presi dal timor di panico e con una certa insistenza si sussurrava: questo è un macello. E corsero verso le giardiniere già abbandonate riprendendo, credo, il cammino per il ritorno. Davanti a questa specie di ammutinamento, le armi, insieme al nostro materiale, furono nuovamente deposte nella così detta “Fornace” rimettendo all'indomani il da farsi.
Partiti la sera del 16 agosto, eravamo giunti sul posto la mattina del 17, come ho detto circa alle ore 3. Dalle ore 3 all'alba, fu per me tutta una atroce tortura. Il mengozzi dopo avere per bene tutto nascosto, e per non creare sospetti, se n'era andato coll'intesa di trovarsi la sera seguente. Egli aveva bisogno di farsi vedere ai suoi in famiglia che l'attendevano per eseguire, come sempre, i lavori più pesanti per la conduzione del molino. Restavo dunque solo, quasi direi in preda alla disperazione. Ero stato colto in quel momento da un inesplicabile malessere. La sete, la mancanza di ogni conforto, tutto ciò contribuiva a rendere eccessivamente crudeli le poche ore di notte che ci separavano dal mattino. E quando trovai in un'osteria, di cui non ricordo il nome, da riposare, quelle ore di riposo furono per me un vero sollievo. Nelle ore pomeridiane del giorno 17 passeggiavo, con i poche rimasti, nell'interno di Castrocaro tranquillamente, come se nulla fosse. E fra me ensavo che la polizia sa proprio solo quello che si dice.....Sull'imbrunire vidi alcune carrozze che si fermarono sul posto del nostro convegno, e pensai subito: ecco i messaggeri venuti per farci ritornare. Invece io m'ingannavo. Erano diversi venuti appositamente da Forlì, dalla Rovere ecc, per unirsi alla nostra spedizione. Difatti vi fu una subitanea intesa e  alle 9 di sera, ci trovammo nuovamente nel posto abbandonato la sera prima. I pochi rimasti, con quelli aggiunti erano risoluti, e si distribuì a ciascuno, in quella via remota, l'equipaggio, tanto per i viveri come per le armi. Così armati a tutto punto, c'incamminammo per la salita per giungere al posto destinato. Alla prima svoltata, alcuni osservavano che si avvicinava una piccola pattuglia composta di due carabinieri e pochi aggiunti. Bene! Dicemmo sommessamente. Questo sarà il primo assalto. Invece la pattuglia si dileguò, e si potè continuare indisturbati nella marcia di ascesa.
La sete-come tutti sanno- è la più grande nemica degli affaticati che marciano, e lungo la salita dei monti fummo costretti a far ben due fermate , chiedendo ospitalità a generosi montanari, che con tanta cortesia ci accolsero: sebbene quasi trasognati nel vedere a quell'ora insolita, una numerosa schiera di armati. E solo dietro le nsotre eccessive insistenze, potemmo ottenere di pagare il conto delle bevande. Poco dopo, anche perchè molti della comitiva non troppo abituati all'alpinismo, si dovette fare un alt. Mentre eravamo tranquillamente seduti, parti un colpo di carabina, l'eco del quale si ripercosse tutto intorno. A tal rumore fummo tutti in piedi: ma nel silenzio della notte si sentì solo la voce sonora del povero Mengozzi: amici nessuna disgrazia! Nulla si rispose dall'una e dall'altra parte della comitiva, e difatti era stato il Moretto di Forlì, meccanico, che scherzando con troppa confidenza col grilletto della carabina, che gli era stata affidata, ne aveva fatto scattare il colpo. Continuammo la salita. Saltammo diversi ruscelli d'acqua, che non so come potessero trovarsi in quelle alture. La mia guida, che io ceravo costantemente, era un certo Antonio, che io chiamavo “Tugnì” il quale mi si era tanto affezionato, che obbediva come un coscritto. Più tardi ho saputo che egli è morto poco dopo di tubercolosi. Abbiti, povero giovane, il mio ultimo vale!
Finalmente giungemmo al luogo destinato. Non ricordo precisamente come chiamare quel posto. La roccaccia o il Monte della Civetta, comunque noi ci trovammo alla massima altezza e in una magnifica posizione. La luna pallidamente c'illuminava. Io, il Mengozzi  ed i meno stanchi, facemmo i fasci delle armi, che depositammo in una specie di caverna, che fortunatamente trovammo in quelle alture. I più si addormentarono senz'altro nella cresta del monte.Ma la furia dei venti che soffiavano insistentemente in quella altura, fece capire a me e a Mengozzi, entrambi vigilanti, che quello non era il posto migliore ove riposare persone stanche sì, ma eccessivamente riscaldate per la lunga marcia. Pensammo allora di svegliarli tutti, e li facemmo piuttosto entrare in una specie di volta angusta e bassa, ma che poteva contenere tutti. Persuasi della nostra disposizione, più che igienica, obbedirono e si coricarono nel nuovo posto, addormentandosi saporitamente. Ad un tratto vidi il Mengozzi prendere la carabina a tracollo e mettersi a fare la guardia sull'alto del monte, mentre tutti gli altri dormivano. Cosa fai? Gli chiesi.Qui siamo al sicuro.
Lascia, mi rispose, ora che ho impegnata la tanto desiderata carabina, lascia che io vegli. Il vedere quell'uomo alto, tarchiato, con barba folta e capelli brizzolati, che egli aveva lasciati crescere (diceva lui) appositamente perchè gli servivano anche da cuscino nel caso che avesse dovuto domire per terra scoperta, mi fece una certa impressione: anche perchè in quel momento Mengozzi aveva rovesciato in giù le falde del cappello, e così armato mi sembrava il vero tipo del Gasparone. Chi avrebbe pensato che sotto a quelle rudi sembianze  si nascondeva un animo eccessivamente  buono e generoso? Poi raccomandai a lui pure di unirsi agli altri nella tana e così fece. Io dovevo veglaire ancora per preparare la corrispondenza del giorno appresso. Il proclama, che aveva già fatto stampare, lo tenevo anche poligrafato in tanti piccoli biglietti e bisognava pure darvi la maggiore diffusione.
Proclama

Lavoratori italiani stanchi di sottostare al giogo della tirannia della Monarchia, insorgono a mano armata, sollevando la Bandiera delle supreme rivendicazioni. I lavoratori insorgenti sostengono un ideale altissimo di emancipazione politica ed economica. Essi non misurano il loro numero, né si sono curati di avere con loro generali ed altolocati: sanno che gli uni comandano eserciti i quali valgono a distruggersi a vicenda: gli altri sono sempre pronti a sfruttare l'opera dei lavoratori stessi.
La loro andiera di ribellione è la Repubblicana, la gloriosa che sventolò sul Campidoglio nel 1849, quella che dai fratelli Bandiera ad Oberdan fè la fede e la tradizione dei martiri italiani.
La difenderanno con la loro vita e colle armi che lor verranno fra mano; quello di cui lo sdegno e l'entusiasmo armano ogni braccio. Confidiamo nel risveglio popolare, forzapossente che abbatterà ogni ostacolo.
Agosto 1890 

Il Comitato

Un giovanotto,prima che gli altri si risvegliassero, andò di buon mattino per la impostazione nel luogo più vicino.
E ciò non poteva creare nessun sospetto, poiché i posti che dovevano comunicare con noi erano pochi, principali , Roma, Milano, Firenze e Ravenna.
Per quelli minori, avevamo la convinzione di essere già intesi mediante convegni intimi a tale riguardo.
Quando i raggi del sole cominciarono a dardeggiare su quelle alture, i congiunti si alzarono con l'unica toeletta di una rinfrescata d'acqua che durante la notte avevamo provveduto in una vicina fontanella. Indi bisognava pensare alla colazione, poiché cominciava a farsi tardi, e non si desiderava abbandonare gli usi di Romagna.
Dunque circa alle otto fu costituito una specie di turno di ordinanza il quale si mise in giro per cercare in qualche casa circostante il necessario. Non bisogna dimenticare-come ho detto- che il buon Mengozzi aveva già provveduto un paio di sacchi di pane di grande misura: non mancava dunque che un po' di companatico, cosa questa del resto non molto cercata.
I messaggeri per le vivande non si fecero molto aspettare e arrivarono colle tasche e i fazzoletti pieni di pomidoro. Portarono pure una padella ed un cartoccio di grano per la cucinatura. Di legna da ardere in quei posti se ne trovava in abbondanza, e il rancio-più che frugale-fu presto allestito. Gli ospiti gli fecero molto onore, divorando il tutto col migliore appetito. Poi si venne alla nomina del caposquadra, e questa cadde sulla mia modesta persona. Dalle 10 alle 11 si fece un po' di manovra. Alcuni che erano reduci dal servizio militare si prestarono di buon grado ad insegnare agl'altri della comitiva, i primi elementi, almeno per caricare le armi, e saper mirare dritto, perchè la maggior parte dei congiurati, solo quella notte, aveva fatto conoscenza colla carabina. Ciò sembrerà strano per dei cospiratori non avere provveduto persone pratiche al maneggio delle armi.Ma non devesi dimenticare, che molti di questi pratici erano mancati, e quindi fu giocoforza usufruire degli elementi che avevano sotto mano.
Finiti i pochi esercizi ci raccogliemmo a consiglio generale per stabilire il da farsi, e mentre stavamo fantasticando, alcuni ritenevano che fossimo chiamati in qualche posto insorgente , altri credevano che fosse necessaria una dimostrazione a mano armata, anche se in pochi, e parmi anche che nella notte susseguente, si volesse procedere ad una specie di ricatto nella persona del ministro Scismit Roda che villeggiava a Castrocaro. Le staffette in questo mentre erano di ritorno con diversi giornali, dai quali potemmo apprendere che il seguito delle altre province ci era venuto a mancare non solo, ma che per notizie intime si era venuto a sapere che in diversi posti, si erano messe in giro persone influenti del partito per dissuaderci dal proseguire più oltre in un'impresa della quale era fallito lo scopo. Che cosa fare . In preda ad orgasmo indescrivibile, restammo come perplessi, aspettando il nostro destino. Ed i messaggi di quietismo della vicine città, non tardarono molto con ordini tassativi, espressi per altro molto benignamente di sciogliere la spedizione. La comitiva fu presa da un certo timore, e lo scioglimento fu- volenti o nolenti-accettato.
Fra i messaggeri, due erano espressamente incaricati di guidarmi dove era stato oro indicato. Ma prima di lasciarci, raccomandai al Mengozzi e agli altri di custodire bene le armi per un'altra volta, che speravamo non lontana.
La notte si avanzava e nel buio io seguivo, per ciottoli e fra le rupi, i due messaggeri a me sconosciuti, ma che mi professavano grande deferenza. Li seguivo, dico, quasi a tentoni e barcollando. Ad un tratto vi fu una sosta e ci accovacciammo dietro un pagliaio: Che c'è domandai sommessamente? Una pattuglia passa, mi fu risposto, aspettiamo. Poco dopo c'incamminammo verso una casetta – così loro mi avvertirono-dove mi aspettava una cena assai modesta, pane e formaggio. Poi i due si accomiatarono, assicurandomi che allora mi trovavo al sicuro.
La mezzanotte era già suonata e mi fecero coricare sopra un lettuccio di poche foglie. Felice di potermi finalmente riposare, dopo molte notti insonni pregustavo la soddisfazione che mi attendeva ed ero già quasi addormentato, quando venni svegliato, con ingiunzione di alzarmi subito.
Erano circa le ore quattro. Chi mi cerca? Richiesi. Una guida, mi fu risposto. Mi alzai subito, e sulla strada trovai un uomo con un sacco sulle spalle, il quale con fare alquanto risoluto mi disse di seguirlo...
E qui comincia la via crucis del ritorno!
La via del ritorno che dovrebbe essere di qualche conforto per chi abbia la convinzione di avere compiuto opera utile, invece quella fu la parte più penosa. Ma di ciò potrò parlarne forse in altro incontro e per ora fo punto.

Sante Montanari







Anno 1890
La spedizione armata del Monte Sassone

I preparativi

Luigi Mengozzi di Paolo e di Lucia Bertini, nato a Castrocaro il 13 settembre 1863, ardente mazziniano, si era fisso nell'idea che un moto rivoluzionario in Romagna, avrebbe spinto il resto dell'Italia ad una sommossa generale per abbattere il governo monarchico.
I suoi molti viaggi a Lugo, Cesena e in altre località della bassa Romagna, miravano a fare dei proselioti per una azione armata, e nel contempo a spiegare la necessità della rivolta.
A Lugo, più che altrove, trovò il terreno favorevole, e un amico di fede, Montanari Sante detto “Cascio” negoziante di letti e mobili di ferro che assecondò il piano escogitato dal Mengozzi.
Intanto occorrevano i denari per la provvista di fucili e munizioni. Il compilatore di queste memorie, unitamente al  presidente Caroli Giovanni detto Bevi di Castrocaro, firmarono al Mengozzi una cambiale di £. 2000 che da lui fu scontata alla Banca Popolare di Forlì, diretta dal Dott. Brasini.
Nel maggio del 1890, una sera, una trentina di Wetterli modello 1870, senza il serbatoio o caricatore con alcune latte di petrolio ove erano riposte moltissime cartucce, fecero il loro ingresso in Castrocaro, sopra una biroccia carica di legna, e furono per il momento scaricati  nel Forno di Via Borgo Piano, gestito allora da certo Giovannini Camillo, mazziniano e iscritto come lo scrivente  al locale Circolo G. Mazzini.
Dopo alcuni giorni, di notetempo, armi e munizioni furono dal Mengozzi tolte e portate nel podere detto “Il campo” di proprietà del padre del Mengozzi e collocate in una cassa, nascoste sotto il piancito di una casupola, tuttora esistente nella forma di laterizi, già di Paolo Caroli.
A questi fucili a retrocarica, furono unite alcune vecchie carabine della Guardia Nazionale, che d'ordine di Sante Montanari e di un certo Gavelli, assessori nel comune di Lugo, tolte dal magazzini municipale di detta città.

Una rissa con i Carabinieri
Era stato deciso dal Mengozzi che la spedizione a mano armata, avesse il suo inizio nella notte di sabato 16 agosto, nel qual giono ricorre una importante fiera di merci e bestiame a Castrocaro, detta di “S. Rocco”-
Infatti sul pomeriggio erano giunte due giardiniere, sorta di carrozzoni, una diligenza, provenienti da Lugo che portavano i rivoltosi, i quali discesero non molto lungi dal paese, non stimando opportuno il farsi vedere in massa, quantunque essendo Castrocaro pieno di forestieri, commercianti i più, forse ciò sarebbe passato inosservato.
Ma un fatto accaduto appunto nel momento che giungevano i rivoluzionari, mandò a monte la decisione, e costoro fecero ritorno alle loro case, dandosi l'appuntamento per la notte di Domenica 17.
Ecco quanto accadde: a certo Tumidei Giueppe, zoppo, colono nel podere detto “La Villa” in parrocchia di S. Cristoforo di Fiumana, dal castrocarese Pantoli Luigi bracciante, erano state rubate varie volte delle legne. Trovatolo in paese, lo bastonò. In aiuto del percosso accorse il di lui fratello Pantoli Domenico detto “la Fessa” e altri.
Si accese quindi una lite seguita da vie di fatto, la quale richiemò sul posto due carabinieri in servizio. 
Il Pantoli Domenico avendo avuto la peggio, e caduto a terra, il Tumidei estratta dalla tasca una pistola carica di pallini da lepre, la puntava contro il Pantoli, ma un pugno ricevuto al braccio da un carabiniere, faceva deviare il colpo, ferendolo però non gravemente al ventre.
Allo sparo accorsero dei presenti, che si scagliarono contro il feritore, che dai carabinieri fu fatto entrare nel caffè di Domenica Montuschi in Orioli. E siccome dai più si voleva linciare il Tumidei e toglierlo dalle mani dei carabinieri, così tutto il furore si risolse contro di loro, e andarono delle bastonate, ad onta che i carabinieri reagirono con le sciabole.
Infine intromessosi quale paciere Luigi Mengozzi, i carabinieri poterono uscire dal caffè e portare in quartiere il colono Tumidei. Il Mengozzi,  che aveva lavati i carabinieri ..fu da molti altri denunziato per ribellione e resistenza alla forza pubblica e processato. Dalla condanna riportata fu assolto a Firenze in appello.

Lo stabilimento balneare delle sorelle Liverini perquisito dalla Polizia

a un zelante quanto sciocco informatore, era stato riferito alla polizia, come il palazzo delle sorelle Liverini, in cui si faceva la cura dei bagni, ora palazzo delle scuole elementari, situato in Via Borgo Piano, fosse stato minato per farlo saltare in aria.
Occorre sapere che il 15 agosto sulle 11 era giunto a castrocaro per intraprendere la cura dei bagni salsoiodici S. E. l'On. Scismit-Roda, ministro delle finanze sotto Francesco Crispi capo alloera del Governo, il quale aveva appunto preso alloggio presso lo stabilimento balneare gestito allora dalla contessa Clelia Liverini V.a Marescotti e da sua sorella Anna. Il Ministro aveva seco il Cav. Ernesto Bernardini suo segretario particolare e l'usciere Pasquale Alessio.
L'informazione, probabilmente preparata dai soliti uomini dell'ordine, trovava forse la sua ragione, per reclamare presso il governo una residenza fissa a Castrocaro di una delegazione di Publica sicurezza.
Fu anche detto e scritto che i rivoluzionari guidati dal Mengozzi, avessero deciso di prendere in ostaggio Il Ministro delle Finanze unitamente al suo segretario, cosa che non accadde. Il Ministro non fu toccato. La sera soleva godersi il fresco stando seduto sul muricciolo della Via Steccati, fumando il suo toscano. La mattina del 16 e cioè alla vigilia della partenza dei rivoluzionari per il Monte Sassone, il ferito Romagnoli Arturo nipote delle sorelle Liverini, fu chiamato dal maresciallo dei carabinieri- residenti allora in Terra del Sole- nel quartiere che a quei tempi era situato in una stanza a terreno del Palazzo Piancastelli, già Contoli, e ora sede provvisoria del Municipio di Castrocaro. Al Romagnoli fu fatto comprendere che occorreva perquisire lo stabilimento balneare, perchè gli si disse essere stato minato da malintenzionati allo scopo di farlo saltare in aria, e uccidere così il ministro Scismit-Roda. Il Romagnoli a codesta notizia, cadde come si dice, dalle nuvole, tanto più che comprese benissimo essere tutto ciò destituito di fondamento.
Tanto il maresciallo, quanto il delegato di P. Sicurezza certo Morelli, delegato allora provvisorio in Castrocaro, assicuravano il Romagnoli, che mediante una chiavica, la quale scaricava le acque nel vicino orto degli Steccati, taluni erano penetrati nel sotterraneo dello stabilimento, e ivi avevano collocato delle bombe. Il Romagnoli fece comprendere ai due funzionari che di giorno non stimava opportuno e assai dannoso nell'interesse delle zie che alloggiavano i bagnanti, il compiere un atto che avrebbe richiamata l'attenzione dei cittadini. Anzi disse di mettersi a disposizione della polizia, purchè la perquisizione avvenisse nella notte, e quindi senza dar adito alla curiosità dei più e ai commenti della popolazione. Così il Romagnoli restò in quartiere a disposizione della polizia dalle 11 del mattino fino alle 11 della notte, nella qual'ora esso guidò certamente gli agenti della forza pubblica unitamente a suo fratello Antonio, a visitare i famosi sotterranei, ove nella chiavica, invece di pericolose bombe, si vide esservi qualcosa di puzzolente, cioè il superfluo che esce dal corpo umano.
Il 17 agosto, quando appunto la banda armata si disponeva alle spedizione, S E.l'On. Alessandro Fortis sottosegretario agl'interni, venne a Castrocaro a far visita di omaggio al Ministro delle Finanze. E il mercoledì 20 agosto, quando i ribelli erano già ritornati alle loro case, il Ministro, dietro consiglio del prefetto Bondi di Forlì, sul mezzogiorno, dovè a malincuore tralasciare la cura e partire da Castrocaro.
Fu per lui una sfortuna pechè dopo pochi giorni, ad Udine essendogli stato offerto un banchetto, ove tenne un discorso politico in senso irredentista, ossia contro l'Austria alleata dell'Italia, Crispi, a mezzo di dispaccio telegrafico, lo destituì dalla carica.
La marcia nella notte

Come d'intelligenza avuta tra i rivoluzionari il giorno precedente 16 agosto, sulla sera della domenica 17 mediante le solite due giardiniere costoro guidati da Sante Montanari- e con lui ora pure certo Gavelli-entrambi di Lugo, pervennero a Castrocaro, dandosi convegno in località “Il Campo” ove colà dal Mengozzi erano già state messe fuori e preparate le armi del nascondiglio.
I rioltosi erano per la massima parte di Lugo, ma vi erano alcuni di Cotignola, di Solarolo; di Forlì vi erano: Gaetano Camporesi detto “e Sfom” già veterano garibaldino, cantoniere provinciale alla “Rovere” Raffaele Valmaggi detto il “Morino” in tutto una quarantina di individui.
Il Mengozzi distribuì a ciascnun ribelle, un fucile, delle munizioni, una daga, un tascapane.
Erano circa le 22, quando la banda armata, ben incolonnata e in silenzio assoluto si mosse dal “Campo”. Percorse la strada detta dei Cozzi, ora delle sorgenti salsoiodiche, facendo una breve sosta nel podere detto Riosalso di sopra. Di lì portatasi sul monte della Chiba, in parrocchia Converselle, discese sul rio Samoggia, trasformandosi in località detta “Le Pietre” in parrocchia di Urbiano, essendo mezzanotte e un quarto. Non so se fosse prima di scendere sul Rio Samoggia , o dopo, che un colpo di fucile echeggiò nel silenzio della notte. Il colpo era partito dal Watterli di Raffaele Valmaggi, il quale non essendo pratico nel maneggio dell'arma, ne aveva involontariamente procurata l'esplosione.
La colonna sostò e subito si credè che tra i componenti la spedizione vi fosse un traditore. Ma appuratasi la cosa, fu fu proseguito il cammino. Fermatisi i rivoluzionari di faccia al palazzo padronale, tutto immerso nel silenzio, abitato allora dal Sig. Antonio Zauli e famiglia, Luigi Mengozzi  bussò alla porta.
Dopo poco una finestra s'aprì. Lo Zauli si affacciò chiedendo chi era e che cosa cercava?
Il Mengozzi, dopo essersi palesato, gli chiese da bere e da magiare per lui e per altri che erano in sua compagnia.
Trascorso un breve tempo, la casa fu illuminata, la famiglia in piedi, e aperta la porta, i 40 armati furono introdotti nell'ampia sala da pranzo.
Il Mengozzi spiegò allo Zauli che intenzione sua e di coloro che lo seguirono era di tentare un moto rivoluzionario.
Alla banda armata fu dato pane, prosciutto, e vino in abbondanza. Prima di allontanarsi, avendo il Mengozzi chiesto allo Zauli quale era la spesa del vitto somministrato, questi rispose che non voleva nulla, ma dietro alle insistenze sue e di Sante Montanari, accettò il denaro.
Fu quindi ripresa la marcia dirigendosi verso “Baccagnano” sempre in parrocchia di Urbiano, palazzo abitato da Antonio Venturini detto “il Magrone” già fattore del Sig. Giuseppe Zauli di Montepaolo e allora dei Sigg.ri Ghetti di Faenza.
Il Venturini fu uomo sicuramente benefico verso i poveri, i proscritti politici, e per quanti a lui si rivolgevano per aiuto. Non tradì mai alcuno. Dopo la rivolta tentata dal Mengozzi, ebbe delle noie dalle autorità politiche, le quali sospettavano che lui sapesse il luogo ove erano state nascoste le armi dei rivoltosi. Fu il Venturini ad indicare al Mengozzi, un sotterraneo poco al di sotto della vetta del Monte Sassone, a cui strisciando carponi, si dava accesso ad una stanza quadra. Ivi furono riposti i Wetterli, daghe e alcune latte da petrolio ricolme di catruccie, unitamente a due bandiere rosse. Un delegato di P.sicurezza aveva tentato di corrompere il silenzio del Vanturini offrendogli 5000 lire. Non ripetè costui la vile offerta la seconda volta, poiché si ebbe più che una risposta, una assai amara paternale.
Il Venturini fu anche un ottimo e appassionato cacciatore. Si spense nel suo palazzo di Boccagnano il 10 luglio 1912 ad un'ora dopo mezzanotte, in età di 80 anni. Fu sepolto nel cimitero parrocchiale di S. Maria in Urbiano nella cappella della sua famiglia, ove è pure la salma della moglie Filomena Ressa morta a 71 anni di età il 9 ottobre 1910, e quella del figlio Giovanni.
Il Mengozzi con diversi compagni passò la notte in casa del Venturini, altri invece presso i contadini dei vicini poderi.
Sul Monte Sassone

Sull'alba del 18 agosto, riordinatasi la banda armata, si diresse sul Monte Sassone, che fu scelto come luogo di accampamento. Resta questa monte in territorio modiglianese alla quota di m. 419, e dista 600 metri dagli avanzi del Castellanio della Pre Mora, detta anticamente di Mauro e ad un chilometro e mezzo in linea d'aria da Boccagnano. Di lassu' scorgesi Castrocaro e Modigliana.
Intanto dal Mengozzi, che come capo dei rivoltosi a per poter distinguersi dai suoi gregari, portava in capo un berretto rosso, furono disposte, attorno al monte le sentinelle, per dare l'allarme, nel caso di un eventuale avvicinarsi delle truppe e per impedire a chicchesia di salire i sentieri che guidavano all'accampamento.
Tutta la giornata del lunedì 18 trascorse senza alcuna novità, né senza movimento da parte della banda. Da Forlì non giunse alcun contingente di rivoltosi, su cui contavano tanto il Mengozzi quanto il Montanari.
A smuovere codesta incomprensibile inerzia, fu deciso di mandare due lettere, una ad Andrea Morgagni e un'altra a Livio Quartaroli- l'uomo più autorevole e possente di Forlì- ed entrambi facenti parte della Direzione della Federazione Repubblicana romagnola.
Nelle lettere il Mengozzi lamentava come da Forlì un buon contingente di repubblicani rivoluzionali, non fosse venuto ad ingrossare le file della banda, e perchè dai capi non fosse stata provocata una specie di agitazione di riscossa nella città, come prima dell'azione eragli stato promesso
Latori delle missive furono il cantoniere gaetano Camporesi e Raffaele Valmaggi.
Ecco le cose come si erano svolte. Il Prefetto di Forlì era stato sollecito a aspedire al Governo un dettagliato rapporto di quanto succedeva sul Monte Sassone.
Francesco Crispi trovò il fatto più che trascurabile e da non destare alcuna preoccupazione d'ordine politico. Passò la pratica al suo sottosegretario On. Alessandro Fortis dicendogli: cerca di far mettere giudizio a quei tuoi amici romagnoli!
Quantunque Livio Quartaroli mazziniano e l'On. Fortis addivenuto a Repubblicano a Monarchico, apparentemente si mostrassero avversari, pure l'uno aveva sempre bisogno dell'altro.
Fortis aveva fatto comprendere al Quartaroli la volontà di Crispi, e cioè di troncare la mossa dehli insorti, e questi obbedì.
Letta dunque la lettera, tutto seccato rispose al Camporesi: se lassù vi sono 42 matti, noi non abbiamo né soldi, né soldati...Vengano a casa...
Ma all'accampamento del Monte Sassone non giunsero più né la risposta, né i due latori delle lettere.
Venne la notte che chiuse quella giornata di forzata inazione e di una sconfortante attesa per la banda.
Intanto Livio Quartaroli non stava con le mani in mano, gli premeva di assecondare il Fortis. Fu pensato di spedire ai rivoluzionari alcune persone influenti del partito repubblicano forlivese e tra queste Garibaldo Ravaioli, che per essere mancante di una gamba, fu costretto a cavalcare un asino, onde persuadere il Mengozzi e il Montanari a desistere dal loro intento.
Fu fatto ad essi osservare che se la sosta sul Sassone se fosse ancora prolungata, avrebbe finalmente deciso il Governo a spedire contro gli armati la cavalleria e la fanteria, con un inutile spargimento di sangue. Che la Romagna si mostrava calma e scelto male il momento di una rivolta: che nessun aiuto potevano aspettarsi dai forlivesi, tanto più che l'atto veniva disapprovato dal Quartaroli, da Antonio Fratti e da altri esponenti del partito repubblicano.
Ma le parole dei parlamentari non trovano lì per lì l'assenso del Mengozzi che disse loro, facendosi anche udire dai compagni: se vi è qualcuno che voglia ritirarsi e andare a casa, lo faccia pure, ma io resto qui fermo, nasca quello che vuol nascere.
I parlamentari forlivesi tironarono a casa sfiduciati.
La cosa da un momento all'altro poteva farsi seria. In Castrocaro le famiglie che avevano dei figli nella spedizione, stavano in continua apprensione. Fu pensato di mandare sul Monte del Sassone il castrocarese Domenico Fiorentini, persona seria e influente per dissuadere il Mengozzi di proseguire nel suo gesto, e di sciogliere le bande.
Al Fiorentini si unì pure il capo mastro muratore Mini Rutilio.
Infatti sul mattino del mercoledì 19 agosto, si portarono sul Sassone, e persuasero tanto il Mengozzi quanto il Montanari di ritornare a casa, in vista anche che non ricevendo né uomini, né soccorsi, il tentativo si poteva giudicare fallito.
Allora il Mengozzi rimettendo la cosa ad altra occasione più favorevole, sciolse la banda, ordinando che ognuno ritornasse alla propria casa. Quelli di Lugo e di Cotignola, accompagnati dal Montanari, risaliti sulle “giardiniere” che erano state poste in uno stallatico di Castrocaro, se ne tornarono donde erano venuti. Nel partire avevano lasciato le armi e le munizioni disperse per i campi, tanto che fu necessario mandare certo Federati Antonio colono nel podere la “Croce” di Zola e il bracciante Ravaioli Antonio detto “Pretolino” a raccoglierle e metterle al sicuro.
Intanto a mezzo del bracciante Savelli Filippo e di altri, le armi furono provvisoriamente occultate in un podere detto “il Buco” del Rio Samoggia, per avere dopo poco un assetto più lungo e più sicuro nel sotterraneo del Monte del Sassone.

Dopo la spedizione

Il governo di Crispi su questo fatto audace di alcuni rivoluzionari romagnoli, aveva imposto a tutte le autorità “la consegna di russare”.
La stampa accennò fugacemente e con ironia a questa sommossa. Il giornale Romano il “Rugantino” si sbizzarrì a mettere in caricatura Garibaldo Ravaioli a cavallo del circo.
E Felice Albani (Sereno) nel suo opuscolo: Alessandro Fortis- dalla giovinezza a Villa Ruffi e da Villa Ruffi al quirinale, Firenze casa editrice Nerlini 1905, così scrive a pag.33:
“ Della banda- per vera, effettiva, vivente e marciante- non si accennò quasi neppure sui giornali: se ne parlava soltanto a Roma, nei circoli politici: ma nessuno era interessato a dar fiato alle trombe, per opposte incomprensibili ragioni.”
“Le autorità che tutto sapevano, avevano l'ordine di nulla accorgersi”. E tennero la consegna.
“Nessun disturbo per i reduci, né subito, né dopo, né mai”
Però la polizia di Castrocaro volle colpire lo stesso Luigi Mengozzi, il capo della rivolta, coinvolgendolo quale imputato di ribellione alla forza pubblica, lui che aveva appunto fatto da paciere nella rissa del Caffè Orioli contro i carabinieri.
Alla camera dei deputati fu presentata una interrogazione al Ministro degli Interni dal deputato di destra On, Muratori, per sapere quali provvedimenti avesse preso il Governo in merito alla spedizione castrocarese.
In quella seduta, essendo assente il capo del Governo Francesco Crispi che trovavasi nella Sicilia, rispose l'on. Alessandro Fortis sottosegretario di Stato, dicendo all'interrogante: non si preoccupi onorevole dela spedizione di Castrocaro, perchè quelli non erano rivoluzionari, ma una comitiva di miei amici che andavano ad una partita di caccia.
Come furono salvate le armi

Scrissi più avanti come il Venturini Antonio, avesse avesse impegnato il ripostiglio di Monte Sassone, ove con sicurezza si potevano riporrei fucili.
Le vecchie carabine del Municipio di Lugo, vennero quasi tutte disperse e finirono in mano ai contadini vicini al Sassone e anche più oltre.
Furono invece conservati una trentina d Wetterli, alcune daghe, e varie       dicartucce.
Dal 1890 fino al 1896 stettero quinde depositate sotto il Sassone: ogni tanto si aveva cura di mandare qualcuno ad ungerle e pulirle. Questa missione era affidata a Tassinari Agostino detto “Murola” che prendeva su un altro compagno del circolo Mazzini Castrocarese.
Siccome la polizia più d'una volta si era portata sul luogo, non riuscendo però ad individuare ove fossero, così fu pensato di portarli via.
M'incaricai io sottoscritto della faccenda, e una notte feci di colssù trasportare le armi, riproponendole al sicuro in un mio podere detto “Mancina di sotto” o Cà ed Munacia della parrocchia di Pieve Salutare.
Intanto da qualche spia fu avvertita la polizia che si portò sulSassone e guidata, potè introdursi nella stanza ove già erano le armi. Troppo tardi. Si dovè contentare di far strombazzare nei giornali che aveva scoperto il tanto ricercato deposito delle armi della spedizione castrocarese, contentandosi di uno straccio logoro di una bandiera rossa, di due o tre daghe e di una latta di petrolio vuota.
Dopo essere state qualche mese nel mio podere, decisi di trasportarle entro il paese, riponendole nella mia casa che possedevo in Via Borgo Piano al n° 11.
Dal muratore Zauli Giovanni detto Nanon, persona fidatissima,feci aprire un muro nel solaio o magazzino, e disposi in buon ordine armi e munizioni sul soffitto che resta sulla scala.
Dopo feci rifare il muro dandogli il colore che riteneva il restante non demolito.
Dal 1898 per la rivolta di Milano, la polizia eseguì delle perquisizioni nelle case dei più noti mazziniani, e dopo aver perquisita quella di Amilcare Barboni, di Barbieri Antonio, perquisì pure la mia, non trovando nulla in essa che avesse relazione con quella sommossa, non passandole nemmeno per il capo che ivi erano nascosti i famosi fucili della spedizione del Sassone.
In seguito quando mi parve kil momento opportuno, e che più non si pensava né ai fucili, né tantomeno alla spedizione, li distribuii a coloro che per acquistarli avevano ciascuno pagata la loro quota.
Prima di chiudere queste memorie, do il cognome, nome, soprannome dai Castrocaresi che presero parte alla sommossa:
Essi furono: 1 Caroli Girolamo di Giacomo detto -Zamcarè_
2 Gurioli Fiorino di Domenico – La Veina-
3 Lotti Quinto di Giueppe- Baganì-
4 Mengozzi Luigi di Paolo-Gigì ad Mason-
5 Monti Guglielmo di Michele-Baltucela-
6 Ragazzini Giuseppe di Domenico-Bartlett
7 Savelli Filippo di Achille-Pipola-
8 Saviotti Silvio di Romolo-Pitì-
9Vallicelli Nicole di Giuseppe-Puntazz-
10 Varsari Giovanni di Vincenzo-Maighardon-
11 Vespignani Antonio di Luigi- Babacì
(Antonio Sassi)

Trascrizione Paola Zambonelli

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