sabato 3 settembre 2016

I terremoti storici in Romagna


Cartolina di Santa Sofia terremoto del novembre 1918
Nella notte tra il 19 e il 20 ottobre 1768, attorno alla mezzanotte ora locale (cioè attorno alle 23 GMT, l’ora riportata per convenzione nei cataloghi sismici), due forti scosse di terremoto colpirono l’Appennino tosco-romagnolo, causando gravi danni nell’alta valle del fiume Bidente. Una decina di centri, tra cui Santa Sofia (oggi in provincia di Forlì-Cesena), subirono estese distruzioni, con effetti che sono stati valutati attorno al grado 9 della scala MCS (Mercalli-Cancani-Sieberg); poco meno di una ventina di altri paesi, tra villaggi e borghi, subirono danni gravi e diffusi, con effetti superiori al grado 7 MCS (Guidoboni et al. 2007).

La prima scossa danneggiò notevolmente Santa Sofia, dove crollarono edifici fatiscenti e mal costruiti, soprattutto case rurali. Dopo alcuni minuti avvenne la scossa più forte, che causò le distruzioni maggiori. Seguirono nella stessa notte altre scosse minori che causarono ulteriori danni a Santa Sofia e dintorni.

Galeata (FC): epigrafe murata sulla facciata
della Pieve di San Pietro in Bosco,
in cui è ricordato il terremoto che colpì
la cittadina nel 1194 [foto di Romano Camassi – Ingv-Bologna].
La zona colpita dal terremoto, nel cuore dell’Appennino romagnolo, all’epoca era un’area di notevole importanza strategica per la viabilità ed era attraversata dal confine tra due importanti Stati politicamente e amministrativamente indipendenti: il Granducato di Toscana e lo Stato della Chiesa. Il confine correva proprio lungo il fiume Bidente: il territorio sulla riva sinistra (a ovest) del fiume afferiva a Firenze e includeva Santa Sofia e Galeata; quello sulla riva destra (a est) era invece sotto il Papato e includeva, oltre alle vicine Civitella e Meldola, anche il borgo di Mortano, che all’epoca era separato da Santa Sofia (nel 1828 Mortano divenne poi Comune autonomo fino al 1923, anno in cui fu annesso a Santa Sofia). L’amministrazione comunale di Santa Sofia dipendeva dalla podesteria di Galeata, mentre Mortano faceva parte del territorio di Meldola, feudo del principe Andrea Doria Pamphilj all’interno dello Stato Pontificio.

A Santa Sofia crollarono molti edifici, compresi il castello e la rocca, e gran parte della chiesa parrocchiale di Santa Lucia; gli edifici rimasti in piedi rimasero tutti più o meno seriamente lesionati. Il campanile con l’orologio pubblico si inclinò e divenne pericolante. Ci furono gravissime distruzioni anche nell’abitato di Mortano, sulla riva destra del fiume Bidente, e nei piccoli villaggi e borghi rurali del contado, tra cui Berleta, Camposonaldo, Collina di Pondo e Spescia. Le scosse danneggiarono gravemente anche il ponte sul Bidente che univa Santa Sofia a Mortano e costituiva un importante collegamento tra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio.

Danni gravi e diffusi si ebbero a Spinello, Cerreto, Cabelli e altri villaggi rurali, dove crollarono alcuni edifici.

La gravità degli effetti di danno fu sicuramente accentuata dalla estrema vulnerabilità dell’edilizia rurale della zona, tipica di tutta l’area appenninica, caratterizzata da case costruite per lo più in ciottoli di fiume legati con malte povere, con pareti esterne mal connesse e tetti pesanti in lastre di arenaria poggianti direttamente sulle pareti perimetrali.

A Rocca San Casciano fu seriamente danneggiato il convento dei padri Minori Osservanti Riformati, che divenne in gran parte inabitabile. Nel resto della montagna romagnola ci furono danni più leggeri in centri come Cusercoli, San Piero in Bagno, Tredozio, Galeata, Brisighella, dove alcuni edifici rimasero lesionati in modo non grave; danni lievi anche a Forlì, dove caddero diversi comignoli.

Il frontespizio di una relazione
a stampa sul terremoto all’interno
della Gazzetta Toscana, anno 1768, Tomo Terzo].
La scossa principale, quella più forte, fu avvertita fortemente e con panico, ma senza danni, a Cesena, Meldola, Portico di Romagna, Faenza. Spavento anche a Firenze, dove oltre alla scossa principale (mainshock) furono avvertite in modo più lieve anche la prima scossa e alcune repliche (aftershocks) nell’arco di 3 ore; la scossa più forte nella capitale del Granducato durò “6 battute di polso” (circa 6 secondi). Il terremoto fu avvertito a Rimini, Pesaro, Cento (in provincia di Ferrara), Padova e a Roma. La sequenza sismica durò per alcuni mesi.

Le scosse causarono anche effetti sull’ambiente naturale: nell’area epicentrale attorno a Santa Sofia furono osservati fenditure e crepacci nel terreno. Complessivamente vi furono un centinaio di vittime, di cui 54 solo a Santa Sofia e una dozzina a Mortano.

 Le due amministrazioni statali coinvolte, Firenze e Roma, risposero con ritardo alle richieste e alle suppliche da parte dei governatori e delle popolazioni locali. Il granduca di Toscana, Pietro Leopoldo, il 2 novembre inviò sul posto il “soprasindaco del magistrato dei Nove”, Giovan Battista Nelli, con l’incarico di verificare l’entità dei danni e provvedere alle prime necessità della popolazione che già da dodici giorni era costretta a bivaccare all’aperto. Il 9 novembre, anche il principe Andrea Doria Pamphilj, feudatario di Meldola, inviò sul luogo il suo agente generale Matteo Barboni con l’incarico di distribuire alla popolazione la somma di 600 scudi e l’equivalente in grano. Affidò inoltre al governatore di Meldola, Gentili, il compito di rilevare i danni alle case e di predisporre le liste per la distribuzione degli aiuti.

Cartolina di Santa Sofia terremoto del novembre 1918
In entrambi i casi, però, gli interventi economici, sebbene ampiamente pubblicizzati dai giornali dell’epoca, si rivelarono inadeguati alle reali esigenze della popolazione, che incontrò difficoltà e problemi a far fronte ai costi crescenti legati al forte aumento della domanda di manodopera e di materiali da costruzione. Le popolazioni locali dovettero così sopportare l’intero onere delle ricostruzioni, sia di quelle relative al patrimonio edilizio privato, sia di quelle relative alle chiese parrocchiali. A Spinello, per esempio, si protrasse per anni un dissidio fra parroco e parrocchiani a proposito della riparazione della chiesa “tutta fracassata”, che secondo il parroco spettava completamente al popolo (Guidoboni et al., 2007).

 L’area appenninica romagnola è fra le zone maggiormente sismiche dell’Italia centro-settentrionale, soprattutto per l’elevata frequenza di terremoti che nel corso dei secoli vi hanno causato danni più o meno gravi, e in diverse occasioni anche estese distruzioni.

Cartolina di Santa Sofia terremoto del novembre 1918
Per quanto riguarda gli ultimi mille anni di storia (CPTI11), il primo evento di cui si ha notizia nell’area è quello del 1194, ricordato da un’epigrafe ancora oggi visibile sulla facciata della Pieve di San Pietro in Bosco a Galeata. A partire dal XVI secolo forti terremoti che hanno causato gravi danni e distruzioni nell’Appennino romagnolo (alte valli del Bidente e del Savio) o nella fascia pedappenninica tra Faenza, Forlì e Cesena, sono avvenuti a cadenza secolare:
Data     Area epicentrale     Imax (MCS)     Mw
1584 09 10     Appennino tosco-emiliano1     9     5.8
1661 03 22     Appennino romagnolo     10     6.1
1768 10 19     Appennino romagnolo     9     5.9
1781 04 04     Romagna     9-10     5.9
1781 07 17     Romagna     8     5.6
1870 10 30     Romagna     8     5.6
1918 11 10     Appennino romagnolo     9     5.9

L’elevata frequenza di forti terremoti in quest’area emerge chiaramente anche dalla storia sismica di Santa Sofia che si può ricavare dal catalogo CPTI11. Negli ultimi 1000 anni coperti dal catalogo la storia sismica di questo comune è nota solo a partire dalla fine del XVI secolo (terremoto del 1584); il che ovviamente non significa che a Santa Sofia prima non ci siano stati terremoti, ma che allo stato attuale delle conoscenze semplicemente non si hanno informazioni a riguardo (o perché queste informazioni non sono mai state prodotte, o più verosimilmente perché non si sono conservate fino ai giorni nostri).

Cartolina di Santa Sofia terremoto del novembre 1918
A partire dal 1584, in un arco temporale di circa 430 anni, Santa Sofia ha subito gravi danni e distruzioni a seguito di quattro forti terremoti (Intensità ≥ 8 MCS) e danni minori (Intensità ≥ 6 MCS) in almeno sei altre occasioni. Dopo le distruzioni del 1918 e la ricostruzione successiva, la cittadina ha subito danni più lievi a seguito di terremoti anche negli anni 1952, 1956, 1957 e 2003. In realtà, per i terremoti minori la storia sismica di Santa Sofia risulta completa solo dal 1900 in poi e dunque si può supporre che nei secoli precedenti vi siano stati altri episodi sismici che hanno causato dei danni, ma che non sono stati “registrati” dalla tradizione sismologica.

Il 4 aprile e poi di nuovo il 17 luglio 1781 due forti scosse interessarono la Romagna, causando gravi ed estesi danni tra faentino e forlivese.

Cartolina di Mortano, Santa Sofia, terremoto del novembre 1918
Le aree colpite dai terremoti del 4 aprile (Mw 5.9, CPTI11) e del 17 luglio (Mw 5.6, CPTI11) risultano in buona parte sovrapposte, mentre quella colpita dal terremoto del 3 giugno è decisamente spostata più a sud-est. E tuttavia i tre eventi furono sufficientemente ravvicinati nel tempo e nello spazio da poter ragionevolmente pensare che abbiano generato una situazione di allarme crescente e prolungato in una vasta area dell’Italia centrale a cavallo dell’Appennino, compresi diversi centri dove le scosse causarono solo lievi danni o furono solo ripetutamente avvertite (ad esempio in città come Firenze, Arezzo, Pesaro, Rimini, Ravenna). L’occorrenza di forti scosse ravvicinate non solo nel tempo ma anche nello spazio geografico è una caratteristica che sembra ricorrere con una certa frequenza nella storia sismica italiana. Per rimanere nell’Appennino settentrionale (incluso il settore di catena colpito dagli eventi del 1781), è molto significativa la serie di forti terremoti avvenuti nella prima metà del secolo scorso nell’arco di soli cinque anni, tra il 1916 e il 1920, con una curiosa “migrazione” degli epicentri da sud-est a nord-ovest: nel 1916 una lunga e complessa sequenza sismica colpì la costa adriatica tra Pesaro e Rimini, con due eventi principali (17 maggio, Mw 6.0, e 16 agosto, Mw 6.1, entrambi con Io 8 MCS); il 26 aprile 1917 toccò all’alta Valtiberina, nella zona di Monterchi (AR) e Citerna (PG), con Mw 5.9 (Io 9-10 MCS); il 10 novembre 1918 furono gravemente danneggiati Santa Sofia (FC) e altri centri dell’Appennino forlivese (Mw 5.9, Io 9 MCS); poco più di 7 mesi dopo, il 29 giugno 1919, fu la volta del Mugello con Mw 6.3 (Io 10 MCS) e gravi distruzioni tra Vicchio e Borgo San Lorenzo (FI); infine, il 7 settembre 1920 si verificò il più forte terremoto fino ad oggi registrato nell’Appennino settentrionale (Mw 6.5, Io 10 MCS), il cui epicentro fu in Garfagnana e Lunigiana, dove ci furono vaste distruzioni e centinaia di vittime (dati da CPTI11 e DBMI11).

Dal punto di vista della pericolosità sismica, l’area dell’Appennino Forlivese è tra quelle che mostra i maggiori valori nell’Appennino Settentrionale. La pericolosità sismica esprime gli scuotimenti del suolo attesi con una certa probabilità nei prossimi anni. Valori elevati di pericolosità si possono avere in zone con eventi molto distruttivi o con eventi forti molto frequenti. In questo caso l’area è caratterizzata da sismicità che al massimo ha raggiunto magnitudo 6.1 (nel caso del terremoto del 22 marzo 1661), ma il catalogo storico riporta ben 8 terremoti con magnitudo maggiore di 5.5 (il primo della storia sismica della zona è quello del 30 aprile 1279) e 27 eventi di magnitudo maggiore di 5.0. L’accadimento ripetuto di eventi di magnitudo medio-alta fa sì che la pericolosità dell’area sia maggiore di quella delle zone circostanti.

Nel 2011 uno sciame sismico di importante intesità si verificò nel forlivese (Il fenomeno si ripete dalla fine di maggio: decine di terremoti al giorno) per quasi tutta l'estate provoncando alcune lesioni ad edifici pubbilci (vedi anche)

Italia bella e fragile: i terremoti del passato