La
spedizione del Monte Sassone.
Ricordi lasciati da Sante
Montanari detti “Cascio” di Lugo
Capo I Esordio
![]() |
Gigì ad Masòn |
Mi sarei rassegnato a tacere
ancora, aspettando che un pietoso velo avesse sepolto per sempre nell'oblio il
così detto “Moto di Castrocaro” ma poiché, dopo oltre un ventennio, si osa
farne sui giornali delle delle pubblicazioni talvolta cervellotiche e quindi
non esatte, mi trovo nella necessità d'intervenire.
E siccome io sono indicato
(modestia a parte) come il principale fautore del sopradetto “Moto di
Castrocaro” debbo mettere le cose a posto nell'intento di giustificare il mio
operato, tanto dal lato del prestigio morale, come da quello più importante
della sincerità.
Vengo dunque ad una esatta e
dettagliata esposizione di cose e fatti, e prego il lettore ad essermi
cortesemente benevolo di attenzione.
Dividerò la narrazione in diversi
capitoli, incominciando con un po' di storia retrospettiva del nostro elemento
rivoluzionario, perchè si sappia che chi dedicò forza, anima e onore ad una
azione non scevra di pericoli, non fu vittima né di un fanatismo insano, né di una esaltazione
ingiustificata, ma per il portato di una convinzione profonda, che gli eventi
man mano maturarono.
II- Lavoro preparatorio
I convegni segreti, le gite, le
stampe non dovevano essere elementi ottimi per affrontare in questi 40
ani e più di regno basato sul privilegio, gli
eventi di una sommossa atta a dare alla popolazione italiana, giusta e degna
soddisfazione, e tentare la instaurazione della sovranità popolare mediante una
alzata di scudi, fosse pure a mano armata, opera questa vaticinata dai nostri
grandi precursori..
Invece l'Alleanza Repubblicana
Universale che ne era il perno principale, in quel momento, si limitava a
spargere fra gli affigliati, i così detti bollettini segreti, ripetendo su per
giù sempre le stesse cose e non si arrivava mai a nessuna conclusione, urtando
così maledettamente colla logica e col buon senso.
Le cerimonie perciò si fecero
vive, specialmente dopo il congresso repubblicano di Firenze del 1886, e da
allora incominciò un altro lavoro più aperto e più spigliato, sebbene si
svolgesse nelle stesse forme, sempre occulte e segrete.
Felice Albani e Lodovico Marini,
che in quell'epoca tenevano testa al Comitato centrale del Partito Repubblicano
in Italia, non lasciavano passare occasione, sia nei congressi Nazionali del
Partito, in riunioni di una certa importanza, senza cercare che in un angolo di
queste pubbliche manifestazioni, scaturisse la nota riguardante i preparativi
per una insurrezione contro lo stato dominante: e furono anche indetti convegni
appositi, dove si cimentavano costantemente tutti gli elementi nostri
rivoluzionari allo scopo d'indurli ad azione decisiva.
III – Convegni Intimi
I convegni, come ho detto erano
frequenti: e a Genova, a Firenze, a Bologna, a Forlì, a Ravenna e per ogni
dove, ma il risultato era sempre lo stesso: si faceva un po' di statistica sul
materiale disponibile, qualche buon proponimento sul convegno successivo, e poi tutto si
dileguava placidamente senza addivenire, ripeto, a nessuna pratica conclusione.
Di questo procedimento, mi
sentivo mortificato. Pensavo: o siamo veramente rivoluzionari, ed allora bisognerà pure andare innanzi o vogliamo
parere di esserlo senza averne la virtù del sacrificio, ed allora noi recitiamo
una indegna commedia.
Comunque, non potendo tollerare
più oltre mi decisi farla finita con questa specie di altalena, proponendomi di
svolgere un'azione, che secondo il mio parere, doveva ridonare il dovuto
prestigio
alla parte nostra.
E oltre alle riunioni segrete-
nelle ultime delle quali a Bologna, partecipò anche l'illustre Aurelio Saffi,
proponendo a tale riguardo un apposito fondo nazionale- non mancarono di
conseguenza gli emissari i quali incitavano tutti nel miglior modo possibile ad
un'azione comune a mano armata.
Tralascio di accennare le cose
minori: solo dirò che un giorno- molto prima di quanto ho esposto- mi vidi
comparire nel mio negozio, gli amici Ing. Taroni e A. Del Vecchio,
ingiungendomi che bisognava assolutamente provvedere di armi quanti volonterosi
si votavano alla nostra causa.
Trascuro anche di parlare delle
coneguenti riunioni nel nostro circondario cui partecipavano – molto
assiduamente- i nostri amici di Bagnacavallo, Fusignano ed altri
IV Gli emissari
Primo in questo periodo di tempo
fu quell'anima nobile di Lodovico Marini di S. Arcangelo. Comparve fra noi col
mandato preciso di provvedere ad un lavoro serio di preparazione. Egli ci fece
capire che dovevamo fare in modo di privarci di tutto, fuorchè dell'arma
necessaria: la carabina!
E ricordo che tanto era
disinteressato, che alla sera, volendo offrirgli un modestissimo simposio,
rispose: ma per carità non fate complimenti, tenete tutto per provvedere il
necessario alla nostra causa.
Questo succedeva come ho detto
fra il 1886 e l'87. La corrispondenza quindi col Marini e con altri si fece più
attiva, accentuando i modi della cospirazione.
V Circostanze politiche
E' necessario che io accenni
anche a circostanze di carattere politico le quali, secondo il mio modo di
vedere, dovrebbero valere a titolo di giustificazione. E per prima parlerò del
voluto viaggio del Re in Romagna (1888)
VI Viaggio del Re in Romagna
Francesco Crispi, il quale come
ben disse Bovio -trovava più facile vivere senz'aria, che senza orizzonte
politico- conscio della sua storica frase, la monarchia ci unisce e la
repubblica ci divide, si diede alla conquista della Romagna stabilendo il
passaggio del Re per le nostre contrade. La sfida lanciata dal dittatore alla
così detta Romagna ribelle, non poteva certo trovarci indifferenti. E allora si
fece un lavoro, diciamolo pure, in senso rivoluzionario.
L'emancipazione che si pubblicava
a Roma, da settimanale fu convertita per la circostanza in giornale quotidiano.
Queste circostanze erano elementi ottimi per dimostrare tutto il nostro
disprezzo verso il regime attuale di governo e quindi a me non sembrò vero di
gettarmi, sia pure moderatamente, contro la corrente calmieratrice e
reazionaria.
I partiti avanzati in Romagna,
malgrado le promesso, poco arditamente si scagliavano contro tale tentativo
ingiurioso. Feci, ripeto, quanto potei per far capire che la Ropmagna non si
sarebbe piegata mai al giogo monarchico. Ma sembrava quasi vi fosse un'intesa
per un assoluto silenzio.
Ruppi il ghiaccio, e tenni
un'attiva corrispondenza col quotidiano “l'emancipazione” di Roma, osteggiando
in tutti i modi il decantato viaggio del Re in Romagna. In questa occasione
ebbi il compagno fedele l'Avvocato Tullio Giovanni Corradini di Ravenna e con
esso furono frequenti i colloqui a tale riguardo.
Avevamo già in diverse adunanze,
approvato un manifesto proclama di protesta e di lavoro, quando di soppiatto
gli emissari del forlivese, vennero a frapporsi togliendoci la possibilità di
procedere per un'azione decisiva. Cio' nonostante, anche così dimezzati, si
vide che le nostre insistenze lasciarono capire che nelle alte sfere vi era
qualche preoccupazione al punto che, come un offa, venne elargito
l'allargamento del suffragio elettorale. E per aprire più facilmente l'adito al
progettato viaggio del Re in Romagna, non dovettero muovere tutte le pratiche,
anche presso le persone più influenti del partito repubblicano, alcune delle
quali per altre cortesia, fecero quasi da battistrada.
VII La grande Alba
Venne il 1889: il il centenario
della proclamazione dei diritti dell'uomo, ed i giornali della democrazia erano
pieni di panegirici . Tutto ciò alimentava le mie speranze ed entusiasmava
maggiormente la mia fantasia.
VIII Risveglio delle masse
popolari
Nella lista pubblica in quell'anno
si manifestava un certo risveglio popolare e tutte le amministrazioni comunali
delle principali città d'Italia. Specialmente di Romagna,passarono dalle mani
dei conservatori a quelle della democrazia. Un'arma salutare attraversava,
secondo il mio modo di vedere, le nostre contrade e bisognava approfittarne per
compiere un'azione decisiva onde non renderci maggiormente ridicoli in
raffronto ai nostri propositi rivoluzionari. E d'altra parte, chiunque
guardasse attentamente allo svolgersi della vita politica italiana in quei
momenti, capiva che le agitazioni legali, erano completamente insufficienti e
quindi la necessità impellente di dar mano ad argomenti più persuasivi.
E Come no?
Non avevano avuto forse luogo in
Italia i cento e cento comizi per il suffragio elettorale? Poi non avemmo su
Roma a questo proposito il comizio dei comizi?
Gli uomini più eminenti della
democrazia, parteciparono a quella grande manifestazione, ed il governo della
monarchia restava costantemente impassibile. Il popolo d'Italia si agitava per
l'abolizione delle guarentigie papali ed il governo della monarchia, rispondeva
picche.
E tutta l'immensa agitazione
svoltasi mediante una infinità di comizi per impedire la disattesa impresa
eritrea a cosa valse? Depretis incarò la dose, e rispose regalandoci il
carrozzone delle ferrovie, dove banchieri speculatori traevano il loro
benestare. Eppure, quando una popolazione si agita per una cosa giusta,
dovrebbe trovare eco nei reggitori della cosa pubblica. Tuttociò indispettiva
la parte nostra ed in particolar modo incuorava a tener salda la compagine
della cospirazione
IX Altre circostanze
favorevoli
Sempre più decisi sulla
progettata impresa, pareva a me che tolti i partiti avanzati (specialmente il
partito repubblicano della Romagna) accarezzassero l'idea di una sommossa a
mano armata. E ciò mi parve desumerlo dal fatto, che sul fiorire del 1888 e
lungo il 1889 mi feci, con esito fortunato,iniziatore di diversi congressi, con
l'ausilio dell'avvocato Pierino Turchi e di altri amici della Consociazione
Repubblicana Romagnola, nei quali congressi teneva un linguaggio da cui
traspariva anche all'ascoltatore più miope ciò che veramente mi proponeva.
Difatti tale era la stima di cui era fatto segno in quell'epoca dai miei
correligionari che fui balzato, in poco tempo, da semplice membro del comitato
circondariale, alla direzione centrale della stessa consociazione repubblicana
romagnola. Io non ho mai ambito a cariche di sorta, ma in quel momento accettai
di buon grado, perchè mi dava adito a dar corso alla progettata azione con
maggiore profitto. Ed in quei momenti mi
sembrava di avere capito che bisognava affrettare il passo, perchè elementi ed
idee nuove venivano a scolvolgere o quanto meno, a ritardare la nostra
risoluzione. Orizzonti ostili fino dal congresso di Firenze del 1886 si erano
manifestate diverse correnti. Io ricordo- come lo ricorderanno altri- che in
quel congresso certo De Nobili fece un discorso in senso collettivista,
trattando della nazionalizzazione della terra. E mentre l'assemblea appaludiva,
Aurelio Saffi, che presiedeva la seduta si alzò, e indignatissimo rivolse
parole di amara vergogna all'oratore, talchè tutti rimasero impressionati. Il
timore era più che giustificato, poiché come tutti sanno, la discussione sul collettivismo
e sulla lotta di classe, tenne poi impegnato il nostro partito in molti altri
congressi e sedute successive senza
nessun costrutto.
X I preparativi epistolari
I preparativi epistolari,
contrariamente a quanto si può pensare, furono elaboratissimi. La
corrispondenza passava rapida in molte delle principali città d'Italia. A Roma
facevano capo, come dissi, a Lodovico Marini e a Felice Albani, che potevano
comunicare pel tramite di Ettore Feneri- ora gran maestro della Massoneria. A
Firenze la corrispondenza era ancora più attiva. Comunicavamo costantemente con
Andrea Giannelli- incaricato dell'Alleanza Repubblicana Universale- per tramite
di certo Torquato Giovannini negoziante insospetto di cose politiche. Altre
città d'Italia, ripeto, erano della partita. A Genova avevamo pure il nostro
complotto. Perfino il generale Stefano Canzio non seppe sconsigliarci, cui
mandai apposito incaricato, il vecchi Garibaldino Innocenzo Prina.
E a far ciò fui indotto da una
frase che raccolsi a volo in crocchio, presente Aurelio Saffi, in un intervallo
dello stesso congresso del 1886, ove Canzio uscì fuori con queste precise
espressioni: E' tempo di finirla con le chiacchiere, ci vogliono argomenti più
persuasivi!
A Milano, oltre ad un'intesa con
Bartolo Federici e con altri, tenevo corrispondenza coll'Ing. Paolo Taroni pel
tramite di una signora della quale ora mi sfugge il nome.
Bologna pure non era assente. Con
Emiliano Carloni avevamo preso qualche disposizione, sebbene questi si
mostrasse un po' diffidente. Qui poi nella Bassa Romagna, eravamo in
comunicazione col più piccolo centro. A Rimini avevamo comunicazioni col
Bendandi e col Renzetti. A Cesena con Egisto Valzania e con altri volontari
coadiuvati dal Dott. Zappi. A Ravenna con l'Emiliani, castellani, Monti ecc. Ad
Imola con Sassi e Fantini, i quali non erano passati al collettivismo.
Dappertutto poi ed anche nel più
piccolo paese e nelle borgate si rispondeva con entusiasmo, dando il maggior
contingente di energia e di desiderio per una rivoluzione pratica.
Perchè non dovrei ricoprdare
ancora a titolo di onore il Zanelli di Banacavallo, il Sorboli e il Bezzi per
Traversara, l'Emaldi per Fusignano, il Bertini per Massa Lombarda, quelli di S.
Agata sul Santerno, Lavezzola, Cotignola e tantissimi altri?
XI La Decisione
Ma anche questa intese verbali
sembrava a me non bastassero, e ad ogni costo bisognava addivenire ad una
risoluzione concreta. Quindi, coronato di tale fiducia, stabilii una data,
oltre alla quale non si poteva dilazionare, a meno che non si volesse- secondo
il mio modo di vedere- mandare il tutto alle calende greche. Ne venne di
conseguenza il procedimento per le pratiche necessarie onde raccogliere,
secondo le fatte promesse, gli elementi per una alzata di scudi a mano armata.
XII Il materiale pel
procedimento
Se la parte epistolare fu, come
ho detto, molto elaboratanon meno diligente fu la ricerca dei mezzi materiali
per riuscire nell'intento.
E nelle continue mie ultime gite,
fra gli altri ebbi compagno Babini Albrto di Russi. Le nostre visite nei
diversi centri, erano sempre oltremodo confortanti. Basti dire- tanto per dirne
una- che solo a Faenza il Masoni ci assicurò di mettere a nostra disposizione
le 300 (dico trecento) carabine del tiro a signo nazionale di quella città,
avendo egli solo- il Masoni- in consegna detto materiale.
XIII Procedimento
Esposte così le cose come
avvennero con tutta la sincerità del
ricordo alla distanza di oltre un ventennio , passerò a narrare alcuni aneddoti
che si svolsero prima della partenza.
Un fatto speciale di cui molto si
occupò la stampa in quel momento fu il furto di 40 fucili. Anzi, dirò più
precisamente , dei 43 fucili.
In quell'epoca io era assessore
comunale e delegato per l'igiene del paese. Un giorno visitando il magazzino
comunale posto nella vecchia chiesa di S. Domenico, vidi quegli arnesi in
diversi fasci tenuti con poco riguardo,
e alcuni anzi erano coperti di ruggine e avevano un aspetto tutt'altro che
attraente. Li osservai ad uno ad uno, e quale profano,sembrommi che tuttavia
fossero in qualche modo utilizzabili. E siccome si avvicinava il momento in cui
una sortita in un modo o in un altro avrebbe dovuto dar luogo, così mi feci
premura di chiamare un mio confidente,
relativamente pratico e reduce dal militare servizio, per le dovute riparazioni.Questo
artista non era altro che il mio amico Filippi, al quale diedi incarico di
provvedere il necessario (capsule, polvere)perchè i vecchi arnesi potessero
regolarmente funzionare. Tutto questo, beninteso, io facevo ad insaputa del
Sindaco e dei miei colleghi di Giunta. Ma le mie precauzioni non bastarono,
poiché alla vigilia della partenza- perlustrando- mi accorsi con sorpresa che i
fucili, se n'erano involati.
Era stato il Sindaco, che a mia
insaputa, li aveva fatti trasportare in altro locale. Assicuratomi di ciò,
d'accordo con altro collega del Consiglio Comunale, andai di
persona,minacciandomi di dimettermi, provocando così una inevitabile crisi
nello stesso Consiglio Comunale.Figuratevi! Ercolino Bedeschi, il Sindaco
d'allora, teneva tanto alla stretta compagine della sua amministrazione
comunale, che non si fece ripetere l'invito due volte e, chiamato
immediatamente l'agente comunale,diede ordine che mi fosse svelato il posto
dove erano stati nascosti i fucili.E potei apprendere che dal magazzino di S.
Domenico, erano stati trasportati nell'ultimo piano del collegio Trisi.
L'agente comunale Gaspare Lanzoni, dopo avermi indicato il posto preciso, mi
avvertì che prima di arrivare fin là, avrei dovuto forzare non meno di tre porte chiuse a chiave.
XIV Il ratto dei Fucili
Eravamo favoriti da una notte
abbastanza buia. Il complotto era pronto, ma se non si riusciva ad aprire la
porte, non sarebbe stato possibile impadronirsi dei fucili. Pratico del
mestiere-non del ladro, ma del fabbro- ferraio, mi procurai dei soliti
grimaldelli che avevano servito ad aprire tante altre incertissime porte, e
giunto in piazza Trisi mi accorsi che mancavano i fanali per potere internarsi
nel Collegio Trisi. Mandai subito l'accenditore di fanali Gavelli, che era
della comitiva, perchè colla sua scaletta, ci provvedesse almeno un paio di
lampade a petrolio, che allora servivano per la illuminazione pubblica. Questo
fu fatto, in men che non si dica. E contemporaneamente io avevo già
incominciato il mio lavoro, ed il chiavistello della prima porta aveva già
ceduto. Così con i lumi accesi, tenendo ben coperte le parti che guardavano la
strada, ci internammo, e dopo che io ebbi aperte le altre due porte coi
grimaldelli, ci trovammo d'innanzi alla desiderata preda.Eravamo provvisti di
pezzi di tela e di molta carta vecchia, e si cominciò a fare dei fascetti di
non più di 6 fucili ciascuno. Tutto l'imballaggio era pronto, ma l'ora era
tarda- ore 2 dopo mezzanotte. Alcuni opinavano di tornare la sera susseguente,
ma la maggioranza volle fare il trasporto immediato. Le difficoltà sorgevano
intanto per il modo di poterli trasportare: per la porta davanti era
impossibile. Bisognava quindi scavalcare il muro di cinta. E si stabilì un
servizio sentinelle. Dunque, dicevano alcuni, al primo apparire della forza
pubblica darete un fischio. Ma che fischio-fece osservare il Garavina, ciò è
del ladro ed è troppo di sospetto: soffiatevi il naso. Così fu stabilito.
Fortunatamente il transito avvenne senza nessun incidente ed i 43 fucili andarono
nel posto destinato. Veramente il posto doveva essere un ripostiglio del locale
circolo “Guglielmo Oberdan”, ma poi si ritenne che questo non fosse troppo al
sicuro, e per ciò si lasciò il deposito in locale delle case operaie, presso
Babbi Salvatore. La sosta non doveva oltrepassare un paio di giorni, cioè dal
20 al 22 giugno, giorno destinato per la partenza, che poi non ebbe luogo, per
altre circostanze che narrerò in seguito. Passato qualche giorno, i detentori
di dette armi, cui la cosa diveniva pericolosa, mi fecero sapere che ad ogni
modo volevano sbarazzarsene.
Allora io fui obbligato ad
organizzare un servizio notturno per il ritiro in altro posto.La mia officina
disponeva di un vasto locale, e sebbene io fossi troppo indicato, approvai di fare
il trasporto in casa mia. E la cosa riuscì benissimo. La mia officina, da Via
Fermini aveva un entrata, sul di dietro, dalla parte del Corso Garibaldi, quasi
sconosciuta, e da quella , di nottetempo , feci entrare tutto il bagaglio,
nascondendolo in una legnaia.Le armi furono lasciate nascoste, ripeto,in casa
mia nell'attesa di poterle utilizzare, poiché la progettata prima partenza del
22 Giugno, venne impedita nel modo che racconterò.
XV Tentati impedimenti
Tutto, come dico, era preparato
per la partenza accennata, quando proprio alla vigilia ricevetti una lettera
dalla Associazione Repubblicana Romagnola, colla quale mi s'invitava ad una
adunanza a Forlì, in riguardo appunto a tale impresa. Mi ci recai
immediatamente trepidante, poiché due idee mi balenavano alla mente: quella di
essere aiutato, e l'altra che ammettevo più probabile di essere sconsigliato.
Non mi ero ingannato. Trovai in questo convegno quasi tutti i maggiorenti del
Partito repubblicano della Provincia, i quali unanimi, mi fecero preghiera di
soprassedere per il momento all'impresa. Aggiungevano però che dopo una
quindicina di giorni, la cosa più matura, sarebbe stata più possibile ed essi
stessi vi avrebbero partecipato.
XVI Il Rinvio
Nel ritorno a Forlì, dovetti
passare dai vari paesi consenzienti al complotto e dare contrordini atti a fare
capire il forzato rinvio.
La prima fase finì li aspettando
che quella specie di diverbio desse
conto del promesso aiuto. Ma purtroppo il mio presentimento non tardò molto ad
avverarsi: lettere di amici intimi e comunicazioni verbali, mi annunziavano
quanto fosse deleterio il lavoro che compieva la cricca forlivese. E per quanti
sforzi io facessi, unitamente ad altri, per tenere in piedi la partita, pure
giorno per giorno mi accorgevo che il terreno mi veniva meno. E già ormai mi
davo per vinto, visto che tutti gli sforzi riuscivano inutili.
XVII Nuova Speranza
Quando un bel giorno mi giunse un
telegramma d'urgenza col quale ero invitato immediatamente a Castebolognese,
dove un personaggio mi aspettava per urgentissime comunicazioni.
Fra una corsa e l'altra del treno
(fra le ore 15 e le 17) io non frapposi tempo: lasciai il mio lavoro manuale e
recommi all'appuntamento. Era Felice Albani, che per incarico della Società
segreta- Alleanza Repubblicana Universale- aveva compiuto una dei soliti giri
segreti esploratori . E di comune accordo si stabilì di continuare nel lavoro
incominciato, poiché nel suo viaggio, l'Albani aveva potuto assicurarsi, che
almeno altre quattro Province avrebbero seguito il moto. Ma come, osservai, se
quelli che ci dovrebbero essere d'aiuto ci scalzano continuamente? Non temere
rispose l'Albani, abbiamo altri validi elementi. Noi continueremo le nostre
pratiche, e tu potrai associarti con Luigi Mengozzi di Castrocaro, ottimo elemento.
E fu appunto subito dopo, cioè nel luglio di quell'anno, che ebbi lassù col
Mengozzi un intimo colloquio, stabilendo collo strano Mengozzi, una azione
decisiva, qualsiasi fossero gli elementi che ci avevano seguiti. Così fu
ripreso con lena il lavoro e le riunioni segrete, tornarono molto più
frequenti.
In questa seconda fase prevaleva
l'elemento dei lavoratori del braccio, ed un valido appoggio l'ebbi da un
buonissimo amico di Forlì- poiché altri ci avevano precedentemente abbandonati-
Albino Reich, meccanico, che mi fu sempre di guida nelle frequenti escursioni
lassù pei monti di Castrocaro, che mi erano allora sconosciuti perfettamente.
XVII Preparativi per la
partenza
Si avvicinava il giorno della
partenza, e questo doveva essere improrogabile. Intanto il buon Mengozzi aveva
preparato una trentina di tascapani, un sacco di pane ed armi perfezionate. Dal
canto mio ero pronto.: 3 Wetterbeg, un paio di dozzine di fucili, e due sporte
contenenti materie esplodenti, con un po' di provviste di cibi per la nottata.
XIX La partenza
I partenti da Lugo, Bagnacavallo
erano circa una trentina. Io avevo fatto preparare due grandi giardiniere che
feci fermare ad una certa distanza dal paese, in luogo appositamente destinato.
All'ora precisa, tutti i congiurati
furono pronti al loro posto e circa alle ore 9 della sera del 16 agosto 1890
partimmo alla volta dei monti.
La prima tappa avvenne a S.
Potito. Colà, essendo nella aperta campagna, si fece una rassegna del materiale
disponibile, poi continuammo per Bagnacavallo, dove ci attendevano altri due
bagnacavallesi che aumentarono la nostra comitiva, e così fu a Cotignola e a
Granarolo, seguendo sempre la via del Naviglio. Poi rasentammo Faenza. Ma qui
la consegna era di aspettare gli eventi.
Continuammo per Forlì, dove ci
seguirono alcuni amici, e finalmente ci inoltrammo nella via tortuosa che
conduce sino alla crocina denominata “La Rovere” indi fummo presto a Terra del
Sole e poscia a Castrocaro, ove ci attendevano atri, unitamente al buon
Mengozzi. Erano le 3 dopo mezzanotte: molti si erano addormentati nelle
volture. E intanto con molta precauzione e per una via deserta, fummo
accompagnati in un posto così detto della Fornace. Quelli del posto, ci
avevanopazientemente aspettati, e già tutto era pronto per essere forniti delle
armi e del necessario per far fronte a qualsiasi evento. Ma ad un tratto una
gran parte dei congiurati furono presi dal timor di panico e con una certa
insistenza si sussurrava: questo è un macello. E corsero verso le giardiniere
già abbandonate riprendendo, credo, il cammino per il ritorno. Davanti a questa
specie di ammutinamento, le armi, insieme al nostro materiale, furono
nuovamente deposte nella così detta “Fornace” rimettendo all'indomani il da
farsi.
Partiti la sera del 16 agosto,
eravamo giunti sul posto la mattina del 17, come ho detto circa alle ore 3.
Dalle ore 3 all'alba, fu per me tutta una atroce tortura. Il mengozzi dopo
avere per bene tutto nascosto, e per non creare sospetti, se n'era andato
coll'intesa di trovarsi la sera seguente. Egli aveva bisogno di farsi vedere ai
suoi in famiglia che l'attendevano per eseguire, come sempre, i lavori più
pesanti per la conduzione del molino. Restavo dunque solo, quasi direi in preda
alla disperazione. Ero stato colto in quel momento da un inesplicabile
malessere. La sete, la mancanza di ogni conforto, tutto ciò contribuiva a
rendere eccessivamente crudeli le poche ore di notte che ci separavano dal
mattino. E quando trovai in un'osteria, di cui non ricordo il nome, da
riposare, quelle ore di riposo furono per me un vero sollievo. Nelle ore
pomeridiane del giorno 17 passeggiavo, con i poche rimasti, nell'interno di
Castrocaro tranquillamente, come se nulla fosse. E fra me ensavo che la polizia
sa proprio solo quello che si dice.....Sull'imbrunire vidi alcune carrozze che
si fermarono sul posto del nostro convegno, e pensai subito: ecco i messaggeri
venuti per farci ritornare. Invece io m'ingannavo. Erano diversi venuti
appositamente da Forlì, dalla Rovere ecc, per unirsi alla nostra spedizione.
Difatti vi fu una subitanea intesa e
alle 9 di sera, ci trovammo nuovamente nel posto abbandonato la sera
prima. I pochi rimasti, con quelli aggiunti erano risoluti, e si distribuì a
ciascuno, in quella via remota, l'equipaggio, tanto per i viveri come per le
armi. Così armati a tutto punto, c'incamminammo per la salita per giungere al
posto destinato. Alla prima svoltata, alcuni osservavano che si avvicinava una
piccola pattuglia composta di due carabinieri e pochi aggiunti. Bene! Dicemmo
sommessamente. Questo sarà il primo assalto. Invece la pattuglia si dileguò, e
si potè continuare indisturbati nella marcia di ascesa.
La sete-come tutti sanno- è la
più grande nemica degli affaticati che marciano, e lungo la salita dei monti
fummo costretti a far ben due fermate , chiedendo ospitalità a generosi
montanari, che con tanta cortesia ci accolsero: sebbene quasi trasognati nel
vedere a quell'ora insolita, una numerosa schiera di armati. E solo dietro le
nsotre eccessive insistenze, potemmo ottenere di pagare il conto delle bevande.
Poco dopo, anche perchè molti della comitiva non troppo abituati all'alpinismo,
si dovette fare un alt. Mentre eravamo tranquillamente seduti, parti un colpo
di carabina, l'eco del quale si ripercosse tutto intorno. A tal rumore fummo
tutti in piedi: ma nel silenzio della notte si sentì solo la voce sonora del
povero Mengozzi: amici nessuna disgrazia! Nulla si rispose dall'una e
dall'altra parte della comitiva, e difatti era stato il Moretto di Forlì,
meccanico, che scherzando con troppa confidenza col grilletto della carabina,
che gli era stata affidata, ne aveva fatto scattare il colpo. Continuammo la
salita. Saltammo diversi ruscelli d'acqua, che non so come potessero trovarsi
in quelle alture. La mia guida, che io ceravo costantemente, era un certo
Antonio, che io chiamavo “Tugnì” il quale mi si era tanto affezionato, che
obbediva come un coscritto. Più tardi ho saputo che egli è morto poco dopo di
tubercolosi. Abbiti, povero giovane, il mio ultimo vale!
Finalmente giungemmo al luogo
destinato. Non ricordo precisamente come chiamare quel posto. La roccaccia o il
Monte della Civetta, comunque noi ci trovammo alla massima altezza e in una
magnifica posizione. La luna pallidamente c'illuminava. Io, il Mengozzi ed i meno stanchi, facemmo i fasci delle
armi, che depositammo in una specie di caverna, che fortunatamente trovammo in
quelle alture. I più si addormentarono senz'altro nella cresta del monte.Ma la
furia dei venti che soffiavano insistentemente in quella altura, fece capire a
me e a Mengozzi, entrambi vigilanti, che quello non era il posto migliore ove
riposare persone stanche sì, ma eccessivamente riscaldate per la lunga marcia.
Pensammo allora di svegliarli tutti, e li facemmo piuttosto entrare in una
specie di volta angusta e bassa, ma che poteva contenere tutti. Persuasi della
nostra disposizione, più che igienica, obbedirono e si coricarono nel nuovo
posto, addormentandosi saporitamente. Ad un tratto vidi il Mengozzi prendere la
carabina a tracollo e mettersi a fare la guardia sull'alto del monte, mentre
tutti gli altri dormivano. Cosa fai? Gli chiesi.Qui siamo al sicuro.
Lascia, mi rispose, ora che ho
impegnata la tanto desiderata carabina, lascia che io vegli. Il vedere
quell'uomo alto, tarchiato, con barba folta e capelli brizzolati, che egli
aveva lasciati crescere (diceva lui) appositamente perchè gli servivano anche
da cuscino nel caso che avesse dovuto domire per terra scoperta, mi fece una
certa impressione: anche perchè in quel momento Mengozzi aveva rovesciato in
giù le falde del cappello, e così armato mi sembrava il vero tipo del
Gasparone. Chi avrebbe pensato che sotto a quelle rudi sembianze si nascondeva un animo eccessivamente buono e generoso? Poi raccomandai a lui pure
di unirsi agli altri nella tana e così fece. Io dovevo veglaire ancora per
preparare la corrispondenza del giorno appresso. Il proclama, che aveva già
fatto stampare, lo tenevo anche poligrafato in tanti piccoli biglietti e
bisognava pure darvi la maggiore diffusione.
Proclama
Lavoratori
italiani stanchi di sottostare al giogo della tirannia della Monarchia,
insorgono a mano armata, sollevando la Bandiera delle supreme rivendicazioni. I
lavoratori insorgenti sostengono un ideale altissimo di emancipazione politica
ed economica. Essi non misurano il loro numero, né si sono curati di avere con
loro generali ed altolocati: sanno che gli uni comandano eserciti i quali
valgono a distruggersi a vicenda: gli altri sono sempre pronti a sfruttare
l'opera dei lavoratori stessi.
La loro
andiera di ribellione è la Repubblicana, la gloriosa che sventolò sul
Campidoglio nel 1849, quella che dai fratelli Bandiera ad Oberdan fè la fede e
la tradizione dei martiri italiani.
La
difenderanno con la loro vita e colle armi che lor verranno fra mano; quello di
cui lo sdegno e l'entusiasmo armano ogni braccio. Confidiamo nel risveglio
popolare, forzapossente che abbatterà ogni ostacolo.
Agosto
1890
Il Comitato
Un
giovanotto,prima che gli altri si risvegliassero, andò di buon mattino per la
impostazione nel luogo più vicino.
E ciò non
poteva creare nessun sospetto, poiché i posti che dovevano comunicare con noi
erano pochi, principali , Roma, Milano, Firenze e Ravenna.
Per quelli
minori, avevamo la convinzione di essere già intesi mediante convegni intimi a
tale riguardo.
Quando i raggi
del sole cominciarono a dardeggiare su quelle alture, i congiunti si alzarono
con l'unica toeletta di una rinfrescata d'acqua che durante la notte avevamo
provveduto in una vicina fontanella. Indi bisognava pensare alla colazione,
poiché cominciava a farsi tardi, e non si desiderava abbandonare gli usi di
Romagna.
Dunque circa
alle otto fu costituito una specie di turno di ordinanza il quale si mise in
giro per cercare in qualche casa circostante il necessario. Non bisogna dimenticare-come
ho detto- che il buon Mengozzi aveva già provveduto un paio di sacchi di pane
di grande misura: non mancava dunque che un po' di companatico, cosa questa del
resto non molto cercata.
I messaggeri
per le vivande non si fecero molto aspettare e arrivarono colle tasche e i
fazzoletti pieni di pomidoro. Portarono pure una padella ed un cartoccio di
grano per la cucinatura. Di legna da ardere in quei posti se ne trovava in
abbondanza, e il rancio-più che frugale-fu presto allestito. Gli ospiti gli fecero
molto onore, divorando il tutto col migliore appetito. Poi si venne alla nomina
del caposquadra, e questa cadde sulla mia modesta persona. Dalle 10 alle 11 si
fece un po' di manovra. Alcuni che erano reduci dal servizio militare si
prestarono di buon grado ad insegnare agl'altri della comitiva, i primi
elementi, almeno per caricare le armi, e saper mirare dritto, perchè la maggior
parte dei congiurati, solo quella notte, aveva fatto conoscenza colla carabina.
Ciò sembrerà strano per dei cospiratori non avere provveduto persone pratiche
al maneggio delle armi.Ma non devesi dimenticare, che molti di questi pratici
erano mancati, e quindi fu giocoforza usufruire degli elementi che avevano
sotto mano.
Finiti i pochi
esercizi ci raccogliemmo a consiglio generale per stabilire il da farsi, e
mentre stavamo fantasticando, alcuni ritenevano che fossimo chiamati in qualche
posto insorgente , altri credevano che fosse necessaria una dimostrazione a
mano armata, anche se in pochi, e parmi anche che nella notte susseguente, si
volesse procedere ad una specie di ricatto nella persona del ministro Scismit
Roda che villeggiava a Castrocaro. Le staffette in questo mentre erano di
ritorno con diversi giornali, dai quali potemmo apprendere che il seguito delle
altre province ci era venuto a mancare non solo, ma che per notizie intime si
era venuto a sapere che in diversi posti, si erano messe in giro persone
influenti del partito per dissuaderci dal proseguire più oltre in un'impresa
della quale era fallito lo scopo. Che cosa fare . In preda ad orgasmo
indescrivibile, restammo come perplessi, aspettando il nostro destino. Ed i
messaggi di quietismo della vicine città, non tardarono molto con ordini
tassativi, espressi per altro molto benignamente di sciogliere la spedizione. La
comitiva fu presa da un certo timore, e lo scioglimento fu- volenti o
nolenti-accettato.
Fra i
messaggeri, due erano espressamente incaricati di guidarmi dove era stato oro
indicato. Ma prima di lasciarci, raccomandai al Mengozzi e agli altri di
custodire bene le armi per un'altra volta, che speravamo non lontana.
La notte si
avanzava e nel buio io seguivo, per ciottoli e fra le rupi, i due messaggeri a
me sconosciuti, ma che mi professavano grande deferenza. Li seguivo, dico,
quasi a tentoni e barcollando. Ad un tratto vi fu una sosta e ci accovacciammo
dietro un pagliaio: Che c'è domandai sommessamente? Una pattuglia passa, mi fu
risposto, aspettiamo. Poco dopo c'incamminammo verso una casetta – così loro mi
avvertirono-dove mi aspettava una cena assai modesta, pane e formaggio. Poi i
due si accomiatarono, assicurandomi che allora mi trovavo al sicuro.
La mezzanotte
era già suonata e mi fecero coricare sopra un lettuccio di poche foglie. Felice
di potermi finalmente riposare, dopo molte notti insonni pregustavo la
soddisfazione che mi attendeva ed ero già quasi addormentato, quando venni
svegliato, con ingiunzione di alzarmi subito.
Erano circa le
ore quattro. Chi mi cerca? Richiesi. Una guida, mi fu risposto. Mi alzai
subito, e sulla strada trovai un uomo con un sacco sulle spalle, il quale con
fare alquanto risoluto mi disse di seguirlo...
E qui comincia
la via crucis del ritorno!
La via del
ritorno che dovrebbe essere di qualche conforto per chi abbia la convinzione di
avere compiuto opera utile, invece quella fu la parte più penosa. Ma di ciò
potrò parlarne forse in altro incontro e per ora fo punto.
Sante
Montanari
Anno
1890
La
spedizione armata del Monte Sassone
I
preparativi
Luigi Mengozzi
di Paolo e di Lucia Bertini, nato a Castrocaro il 13 settembre 1863, ardente
mazziniano, si era fisso nell'idea che un moto rivoluzionario in Romagna,
avrebbe spinto il resto dell'Italia ad una sommossa generale per abbattere il
governo monarchico.
I suoi molti
viaggi a Lugo, Cesena e in altre località della bassa Romagna, miravano a fare
dei proselioti per una azione armata, e nel contempo a spiegare la necessità
della rivolta.
A Lugo, più
che altrove, trovò il terreno favorevole, e un amico di fede, Montanari Sante
detto “Cascio” negoziante di letti e mobili di ferro che assecondò il piano
escogitato dal Mengozzi.
Intanto
occorrevano i denari per la provvista di fucili e munizioni. Il compilatore di
queste memorie, unitamente al presidente
Caroli Giovanni detto Bevi di Castrocaro, firmarono al Mengozzi una cambiale di
£. 2000 che da lui fu scontata alla Banca Popolare di Forlì, diretta dal Dott.
Brasini.
Nel maggio del
1890, una sera, una trentina di Wetterli modello 1870, senza il serbatoio o
caricatore con alcune latte di petrolio ove erano riposte moltissime cartucce,
fecero il loro ingresso in Castrocaro, sopra una biroccia carica di legna, e
furono per il momento scaricati nel
Forno di Via Borgo Piano, gestito allora da certo Giovannini Camillo,
mazziniano e iscritto come lo scrivente
al locale Circolo G. Mazzini.
Dopo alcuni
giorni, di notetempo, armi e munizioni furono dal Mengozzi tolte e portate nel
podere detto “Il campo” di proprietà del padre del Mengozzi e collocate in una
cassa, nascoste sotto il piancito di una casupola, tuttora esistente nella
forma di laterizi, già di Paolo Caroli.
A questi
fucili a retrocarica, furono unite alcune vecchie carabine della Guardia
Nazionale, che d'ordine di Sante Montanari e di un certo Gavelli, assessori nel
comune di Lugo, tolte dal magazzini municipale di detta città.
Una
rissa con i Carabinieri
Era stato
deciso dal Mengozzi che la spedizione a mano armata, avesse il suo inizio nella
notte di sabato 16 agosto, nel qual giono ricorre una importante fiera di merci
e bestiame a Castrocaro, detta di “S. Rocco”-
Infatti sul
pomeriggio erano giunte due giardiniere, sorta di carrozzoni, una diligenza,
provenienti da Lugo che portavano i rivoltosi, i quali discesero non molto
lungi dal paese, non stimando opportuno il farsi vedere in massa, quantunque
essendo Castrocaro pieno di forestieri, commercianti i più, forse ciò sarebbe
passato inosservato.
Ma un fatto
accaduto appunto nel momento che giungevano i rivoluzionari, mandò a monte la
decisione, e costoro fecero ritorno alle loro case, dandosi l'appuntamento per
la notte di Domenica 17.
Ecco quanto
accadde: a certo Tumidei Giueppe, zoppo, colono nel podere detto “La Villa” in
parrocchia di S. Cristoforo di Fiumana, dal castrocarese Pantoli Luigi
bracciante, erano state rubate varie volte delle legne. Trovatolo in paese, lo
bastonò. In aiuto del percosso accorse il di lui fratello Pantoli Domenico
detto “la Fessa” e altri.
Si accese
quindi una lite seguita da vie di fatto, la quale richiemò sul posto due
carabinieri in servizio.
Il Pantoli
Domenico avendo avuto la peggio, e caduto a terra, il Tumidei estratta dalla
tasca una pistola carica di pallini da lepre, la puntava contro il Pantoli, ma
un pugno ricevuto al braccio da un carabiniere, faceva deviare il colpo,
ferendolo però non gravemente al ventre.
Allo sparo accorsero
dei presenti, che si scagliarono contro il feritore, che dai carabinieri fu
fatto entrare nel caffè di Domenica Montuschi in Orioli. E siccome dai più si
voleva linciare il Tumidei e toglierlo dalle mani dei carabinieri, così tutto
il furore si risolse contro di loro, e andarono delle bastonate, ad onta che i
carabinieri reagirono con le sciabole.
Infine
intromessosi quale paciere Luigi Mengozzi, i carabinieri poterono uscire dal
caffè e portare in quartiere il colono Tumidei. Il Mengozzi, che aveva lavati i carabinieri ..fu da molti
altri denunziato per ribellione e resistenza alla forza pubblica e processato.
Dalla condanna riportata fu assolto a Firenze in appello.
Lo
stabilimento balneare delle sorelle Liverini perquisito dalla Polizia
a un zelante
quanto sciocco informatore, era stato riferito alla polizia, come il palazzo
delle sorelle Liverini, in cui si faceva la cura dei bagni, ora palazzo delle
scuole elementari, situato in Via Borgo Piano, fosse stato minato per farlo
saltare in aria.
Occorre sapere
che il 15 agosto sulle 11 era giunto a castrocaro per intraprendere la cura dei
bagni salsoiodici S. E. l'On. Scismit-Roda, ministro delle finanze sotto
Francesco Crispi capo alloera del Governo, il quale aveva appunto preso
alloggio presso lo stabilimento balneare gestito allora dalla contessa Clelia
Liverini V.a Marescotti e da sua sorella Anna. Il Ministro aveva seco il Cav.
Ernesto Bernardini suo segretario particolare e l'usciere Pasquale Alessio.
L'informazione,
probabilmente preparata dai soliti uomini dell'ordine, trovava forse la sua
ragione, per reclamare presso il governo una residenza fissa a Castrocaro di
una delegazione di Publica sicurezza.
Fu anche detto
e scritto che i rivoluzionari guidati dal Mengozzi, avessero deciso di prendere
in ostaggio Il Ministro delle Finanze unitamente al suo segretario, cosa che
non accadde. Il Ministro non fu toccato. La sera soleva godersi il fresco
stando seduto sul muricciolo della Via Steccati, fumando il suo toscano. La
mattina del 16 e cioè alla vigilia della partenza dei rivoluzionari per il
Monte Sassone, il ferito Romagnoli Arturo nipote delle sorelle Liverini, fu
chiamato dal maresciallo dei carabinieri- residenti allora in Terra del Sole-
nel quartiere che a quei tempi era situato in una stanza a terreno del Palazzo
Piancastelli, già Contoli, e ora sede provvisoria del Municipio di Castrocaro.
Al Romagnoli fu fatto comprendere che occorreva perquisire lo stabilimento
balneare, perchè gli si disse essere stato minato da malintenzionati allo scopo
di farlo saltare in aria, e uccidere così il ministro Scismit-Roda. Il
Romagnoli a codesta notizia, cadde come si dice, dalle nuvole, tanto più che
comprese benissimo essere tutto ciò destituito di fondamento.
Tanto il
maresciallo, quanto il delegato di P. Sicurezza certo Morelli, delegato allora
provvisorio in Castrocaro, assicuravano il Romagnoli, che mediante una
chiavica, la quale scaricava le acque nel vicino orto degli Steccati, taluni
erano penetrati nel sotterraneo dello stabilimento, e ivi avevano collocato
delle bombe. Il Romagnoli fece comprendere ai due funzionari che di giorno non
stimava opportuno e assai dannoso nell'interesse delle zie che alloggiavano i
bagnanti, il compiere un atto che avrebbe richiamata l'attenzione dei
cittadini. Anzi disse di mettersi a disposizione della polizia, purchè la
perquisizione avvenisse nella notte, e quindi senza dar adito alla curiosità
dei più e ai commenti della popolazione. Così il Romagnoli restò in quartiere a
disposizione della polizia dalle 11 del mattino fino alle 11 della notte, nella
qual'ora esso guidò certamente gli agenti della forza pubblica unitamente a suo
fratello Antonio, a visitare i famosi sotterranei, ove nella chiavica, invece
di pericolose bombe, si vide esservi qualcosa di puzzolente, cioè il superfluo
che esce dal corpo umano.
Il 17 agosto,
quando appunto la banda armata si disponeva alle spedizione, S E.l'On.
Alessandro Fortis sottosegretario agl'interni, venne a Castrocaro a far visita
di omaggio al Ministro delle Finanze. E il mercoledì 20 agosto, quando i
ribelli erano già ritornati alle loro case, il Ministro, dietro consiglio del
prefetto Bondi di Forlì, sul mezzogiorno, dovè a malincuore tralasciare la cura
e partire da Castrocaro.
Fu per
lui una sfortuna pechè dopo pochi giorni, ad Udine essendogli stato offerto un
banchetto, ove tenne un discorso politico in senso irredentista, ossia contro
l'Austria alleata dell'Italia, Crispi, a mezzo di dispaccio telegrafico, lo
destituì dalla carica.
La
marcia nella notte
Come
d'intelligenza avuta tra i rivoluzionari il giorno precedente 16 agosto, sulla
sera della domenica 17 mediante le solite due giardiniere costoro guidati da
Sante Montanari- e con lui ora pure certo Gavelli-entrambi di Lugo, pervennero
a Castrocaro, dandosi convegno in località “Il Campo” ove colà dal Mengozzi
erano già state messe fuori e preparate le armi del nascondiglio.
I
rioltosi erano per la massima parte di Lugo, ma vi erano alcuni di Cotignola,
di Solarolo; di Forlì vi erano: Gaetano Camporesi detto “e Sfom” già veterano
garibaldino, cantoniere provinciale alla “Rovere” Raffaele Valmaggi detto il
“Morino” in tutto una quarantina di individui.
Il
Mengozzi distribuì a ciascnun ribelle, un fucile, delle munizioni, una daga, un
tascapane.
Erano
circa le 22, quando la banda armata, ben incolonnata e in silenzio assoluto si
mosse dal “Campo”. Percorse la strada detta dei Cozzi, ora delle sorgenti
salsoiodiche, facendo una breve sosta nel podere detto Riosalso di sopra. Di lì
portatasi sul monte della Chiba, in parrocchia Converselle, discese sul rio
Samoggia, trasformandosi in località detta “Le Pietre” in parrocchia di
Urbiano, essendo mezzanotte e un quarto. Non so se fosse prima di scendere sul
Rio Samoggia , o dopo, che un colpo di fucile echeggiò nel silenzio della
notte. Il colpo era partito dal Watterli di Raffaele Valmaggi, il quale non
essendo pratico nel maneggio dell'arma, ne aveva involontariamente procurata
l'esplosione.
La
colonna sostò e subito si credè che tra i componenti la spedizione vi fosse un
traditore. Ma appuratasi la cosa, fu fu proseguito il cammino. Fermatisi i
rivoluzionari di faccia al palazzo padronale, tutto immerso nel silenzio,
abitato allora dal Sig. Antonio Zauli e famiglia, Luigi Mengozzi bussò alla porta.
Dopo
poco una finestra s'aprì. Lo Zauli si affacciò chiedendo chi era e che cosa
cercava?
Il
Mengozzi, dopo essersi palesato, gli chiese da bere e da magiare per lui e per
altri che erano in sua compagnia.
Trascorso
un breve tempo, la casa fu illuminata, la famiglia in piedi, e aperta la porta,
i 40 armati furono introdotti nell'ampia sala da pranzo.
Il
Mengozzi spiegò allo Zauli che intenzione sua e di coloro che lo seguirono era
di tentare un moto rivoluzionario.
Alla
banda armata fu dato pane, prosciutto, e vino in abbondanza. Prima di
allontanarsi, avendo il Mengozzi chiesto allo Zauli quale era la spesa del
vitto somministrato, questi rispose che non voleva nulla, ma dietro alle
insistenze sue e di Sante Montanari, accettò il denaro.
Fu
quindi ripresa la marcia dirigendosi verso “Baccagnano” sempre in parrocchia di
Urbiano, palazzo abitato da Antonio Venturini detto “il Magrone” già fattore
del Sig. Giuseppe Zauli di Montepaolo e allora dei Sigg.ri Ghetti di Faenza.
Il
Venturini fu uomo sicuramente benefico verso i poveri, i proscritti politici, e
per quanti a lui si rivolgevano per aiuto. Non tradì mai alcuno. Dopo la
rivolta tentata dal Mengozzi, ebbe delle noie dalle autorità politiche, le
quali sospettavano che lui sapesse il luogo ove erano state nascoste le armi
dei rivoltosi. Fu il Venturini ad indicare al Mengozzi, un sotterraneo poco al
di sotto della vetta del Monte Sassone, a cui strisciando carponi, si dava
accesso ad una stanza quadra. Ivi furono riposti i Wetterli, daghe e alcune
latte da petrolio ricolme di catruccie, unitamente a due bandiere rosse. Un
delegato di P.sicurezza aveva tentato di corrompere il silenzio del Vanturini
offrendogli 5000 lire. Non ripetè costui la vile offerta la seconda volta,
poiché si ebbe più che una risposta, una assai amara paternale.
Il
Venturini fu anche un ottimo e appassionato cacciatore. Si spense nel suo
palazzo di Boccagnano il 10 luglio 1912 ad un'ora dopo mezzanotte, in età di 80
anni. Fu sepolto nel cimitero parrocchiale di S. Maria in Urbiano nella
cappella della sua famiglia, ove è pure la salma della moglie Filomena Ressa
morta a 71 anni di età il 9 ottobre 1910, e quella del figlio Giovanni.
Il
Mengozzi con diversi compagni passò la notte in casa del Venturini, altri
invece presso i contadini dei vicini poderi.
Sul
Monte Sassone
Sull'alba
del 18 agosto, riordinatasi la banda armata, si diresse sul Monte Sassone, che
fu scelto come luogo di accampamento. Resta questa monte in territorio
modiglianese alla quota di m. 419, e dista 600 metri dagli avanzi del
Castellanio della Pre Mora, detta anticamente di Mauro e ad un chilometro e
mezzo in linea d'aria da Boccagnano. Di lassu' scorgesi Castrocaro e
Modigliana.
Intanto
dal Mengozzi, che come capo dei rivoltosi a per poter distinguersi dai suoi
gregari, portava in capo un berretto rosso, furono disposte, attorno al monte
le sentinelle, per dare l'allarme, nel caso di un eventuale avvicinarsi delle
truppe e per impedire a chicchesia di salire i sentieri che guidavano
all'accampamento.
Tutta
la giornata del lunedì 18 trascorse senza alcuna novità, né senza movimento da
parte della banda. Da Forlì non giunse alcun contingente di rivoltosi, su cui
contavano tanto il Mengozzi quanto il Montanari.
A
smuovere codesta incomprensibile inerzia, fu deciso di mandare due lettere, una
ad Andrea Morgagni e un'altra a Livio Quartaroli- l'uomo più autorevole e
possente di Forlì- ed entrambi facenti parte della Direzione della Federazione
Repubblicana romagnola.
Nelle
lettere il Mengozzi lamentava come da Forlì un buon contingente di repubblicani
rivoluzionali, non fosse venuto ad ingrossare le file della banda, e perchè dai
capi non fosse stata provocata una specie di agitazione di riscossa nella
città, come prima dell'azione eragli stato promesso
Latori
delle missive furono il cantoniere gaetano Camporesi e Raffaele Valmaggi.
Ecco
le cose come si erano svolte. Il Prefetto di Forlì era stato sollecito a
aspedire al Governo un dettagliato rapporto di quanto succedeva sul Monte
Sassone.
Francesco
Crispi trovò il fatto più che trascurabile e da non destare alcuna
preoccupazione d'ordine politico. Passò la pratica al suo sottosegretario On.
Alessandro Fortis dicendogli: cerca di far mettere giudizio a quei tuoi amici
romagnoli!
Quantunque
Livio Quartaroli mazziniano e l'On. Fortis addivenuto a Repubblicano a
Monarchico, apparentemente si mostrassero avversari, pure l'uno aveva sempre
bisogno dell'altro.
Fortis
aveva fatto comprendere al Quartaroli la volontà di Crispi, e cioè di troncare
la mossa dehli insorti, e questi obbedì.
Letta
dunque la lettera, tutto seccato rispose al Camporesi: se lassù vi sono 42
matti, noi non abbiamo né soldi, né soldati...Vengano a casa...
Ma
all'accampamento del Monte Sassone non giunsero più né la risposta, né i due
latori delle lettere.
Venne
la notte che chiuse quella giornata di forzata inazione e di una sconfortante
attesa per la banda.
Intanto
Livio Quartaroli non stava con le mani in mano, gli premeva di assecondare il
Fortis. Fu pensato di spedire ai rivoluzionari alcune persone influenti del
partito repubblicano forlivese e tra queste Garibaldo Ravaioli, che per essere
mancante di una gamba, fu costretto a cavalcare un asino, onde persuadere il
Mengozzi e il Montanari a desistere dal loro intento.
Fu
fatto ad essi osservare che se la sosta sul Sassone se fosse ancora prolungata,
avrebbe finalmente deciso il Governo a spedire contro gli armati la cavalleria
e la fanteria, con un inutile spargimento di sangue. Che la Romagna si mostrava
calma e scelto male il momento di una rivolta: che nessun aiuto potevano
aspettarsi dai forlivesi, tanto più che l'atto veniva disapprovato dal
Quartaroli, da Antonio Fratti e da altri esponenti del partito repubblicano.
Ma le
parole dei parlamentari non trovano lì per lì l'assenso del Mengozzi che disse
loro, facendosi anche udire dai compagni: se vi è qualcuno che voglia ritirarsi
e andare a casa, lo faccia pure, ma io resto qui fermo, nasca quello che vuol
nascere.
I
parlamentari forlivesi tironarono a casa sfiduciati.
La
cosa da un momento all'altro poteva farsi seria. In Castrocaro le famiglie che
avevano dei figli nella spedizione, stavano in continua apprensione. Fu pensato
di mandare sul Monte del Sassone il castrocarese Domenico Fiorentini, persona
seria e influente per dissuadere il Mengozzi di proseguire nel suo gesto, e di
sciogliere le bande.
Al
Fiorentini si unì pure il capo mastro muratore Mini Rutilio.
Infatti
sul mattino del mercoledì 19 agosto, si portarono sul Sassone, e persuasero
tanto il Mengozzi quanto il Montanari di ritornare a casa, in vista anche che
non ricevendo né uomini, né soccorsi, il tentativo si poteva giudicare fallito.
Allora
il Mengozzi rimettendo la cosa ad altra occasione più favorevole, sciolse la
banda, ordinando che ognuno ritornasse alla propria casa. Quelli di Lugo e di
Cotignola, accompagnati dal Montanari, risaliti sulle “giardiniere” che erano
state poste in uno stallatico di Castrocaro, se ne tornarono donde erano
venuti. Nel partire avevano lasciato le armi e le munizioni disperse per i
campi, tanto che fu necessario mandare certo Federati Antonio colono nel podere
la “Croce” di Zola e il bracciante Ravaioli Antonio detto “Pretolino” a
raccoglierle e metterle al sicuro.
Intanto
a mezzo del bracciante Savelli Filippo e di altri, le armi furono
provvisoriamente occultate in un podere detto “il Buco” del Rio Samoggia, per
avere dopo poco un assetto più lungo e più sicuro nel sotterraneo del Monte del
Sassone.
Dopo
la spedizione
Il
governo di Crispi su questo fatto audace di alcuni rivoluzionari romagnoli,
aveva imposto a tutte le autorità “la consegna di russare”.
La
stampa accennò fugacemente e con ironia a questa sommossa. Il giornale Romano
il “Rugantino” si sbizzarrì a mettere in caricatura Garibaldo Ravaioli a
cavallo del circo.
E
Felice Albani (Sereno) nel suo opuscolo: Alessandro Fortis- dalla giovinezza a
Villa Ruffi e da Villa Ruffi al quirinale, Firenze casa editrice Nerlini 1905,
così scrive a pag.33:
“
Della banda- per vera, effettiva, vivente e marciante- non si accennò quasi
neppure sui giornali: se ne parlava soltanto a Roma, nei circoli politici: ma
nessuno era interessato a dar fiato alle trombe, per opposte incomprensibili
ragioni.”
“Le
autorità che tutto sapevano, avevano l'ordine di nulla accorgersi”. E tennero
la consegna.
“Nessun
disturbo per i reduci, né subito, né dopo, né mai”
Però
la polizia di Castrocaro volle colpire lo stesso Luigi Mengozzi, il capo della
rivolta, coinvolgendolo quale imputato di ribellione alla forza pubblica, lui
che aveva appunto fatto da paciere nella rissa del Caffè Orioli contro i
carabinieri.
Alla camera
dei deputati fu presentata una interrogazione al Ministro degli Interni dal
deputato di destra On, Muratori, per sapere quali provvedimenti avesse preso il
Governo in merito alla spedizione castrocarese.
In quella seduta, essendo
assente il capo del Governo Francesco Crispi che trovavasi nella Sicilia,
rispose l'on. Alessandro Fortis sottosegretario di Stato, dicendo
all'interrogante: non si preoccupi onorevole dela spedizione di Castrocaro,
perchè quelli non erano rivoluzionari, ma una comitiva di miei amici che
andavano ad una partita di caccia.
Come
furono salvate le armi
Scrissi
più avanti come il Venturini Antonio, avesse avesse impegnato il ripostiglio di
Monte Sassone, ove con sicurezza si potevano riporrei fucili.
Le
vecchie carabine del Municipio di Lugo, vennero quasi tutte disperse e finirono
in mano ai contadini vicini al Sassone e anche più oltre.
Furono
invece conservati una trentina d Wetterli, alcune daghe, e varie dicartucce.
Dal
1890 fino al 1896 stettero quinde depositate sotto il Sassone: ogni tanto si
aveva cura di mandare qualcuno ad ungerle e pulirle. Questa missione era
affidata a Tassinari Agostino detto “Murola” che prendeva su un altro compagno
del circolo Mazzini Castrocarese.
Siccome
la polizia più d'una volta si era portata sul luogo, non riuscendo però ad
individuare ove fossero, così fu pensato di portarli via.
M'incaricai
io sottoscritto della faccenda, e una notte feci di colssù trasportare le armi,
riproponendole al sicuro in un mio podere detto “Mancina di sotto” o Cà ed
Munacia della parrocchia di Pieve Salutare.
Intanto
da qualche spia fu avvertita la polizia che si portò sulSassone e guidata, potè
introdursi nella stanza ove già erano le armi. Troppo tardi. Si dovè contentare
di far strombazzare nei giornali che aveva scoperto il tanto ricercato deposito
delle armi della spedizione castrocarese, contentandosi di uno straccio logoro
di una bandiera rossa, di due o tre daghe e di una latta di petrolio vuota.
Dopo
essere state qualche mese nel mio podere, decisi di trasportarle entro il
paese, riponendole nella mia casa che possedevo in Via Borgo Piano al n° 11.
Dal
muratore Zauli Giovanni detto Nanon, persona fidatissima,feci aprire un muro
nel solaio o magazzino, e disposi in buon ordine armi e munizioni sul soffitto
che resta sulla scala.
Dopo
feci rifare il muro dandogli il colore che riteneva il restante non demolito.
Dal
1898 per la rivolta di Milano, la polizia eseguì delle perquisizioni nelle case
dei più noti mazziniani, e dopo aver perquisita quella di Amilcare Barboni, di
Barbieri Antonio, perquisì pure la mia, non trovando nulla in essa che avesse
relazione con quella sommossa, non passandole nemmeno per il capo che ivi erano
nascosti i famosi fucili della spedizione del Sassone.
In
seguito quando mi parve kil momento opportuno, e che più non si pensava né ai
fucili, né tantomeno alla spedizione, li distribuii a coloro che per
acquistarli avevano ciascuno pagata la loro quota.
Prima
di chiudere queste memorie, do il cognome, nome, soprannome dai Castrocaresi
che presero parte alla sommossa:
Essi
furono: 1 Caroli Girolamo di Giacomo detto -Zamcarè_
2
Gurioli Fiorino di Domenico – La Veina-
3
Lotti Quinto di Giueppe- Baganì-
4
Mengozzi Luigi di Paolo-Gigì ad Mason-
5
Monti Guglielmo di Michele-Baltucela-
6 Ragazzini
Giuseppe di Domenico-Bartlett
7
Savelli Filippo di Achille-Pipola-
8
Saviotti Silvio di Romolo-Pitì-
9Vallicelli
Nicole di Giuseppe-Puntazz-
10
Varsari Giovanni di Vincenzo-Maighardon-
11
Vespignani Antonio di Luigi- Babacì
(Antonio
Sassi)
Trascrizione
Paola Zambonelli
Nessun commento:
Posta un commento